lunedì 10 agosto 2015

72 ore

Buio. Mi muovo nell’oscurità, densa come melassa .Allungo le gambe di fronte a me , fino a che lo spazio circostante me lo consente ;urlo quasi fino a farmi male, ma solo le mie orecchie sentono la mia stessa voce: se c’è qualcuno al di là dei massi che mi tengono prigioniero, non posso saperlo :per me il tempo si è fermato, la vita ha subito una battuta d’arresto . Tendo una mano verso l’ignoto ;davanti al mio viso, sopra la mia testa , sotto il mio stesso corpo le mie dita afferrano il vuoto , fino a che non cozzano contro la ruvida superficie della mia angusta cella. Panico . Il primo contatto con le pareti è brutale, animalesco : le asperità della superficie irregolare mi lacerano la pelle , aprono squarci tra le grinze dei palmi , il sangue e gli umori si mescolano in una miscela di terrore puro. Nella mia mente si sviluppano immagini intermittenti: ghiaia , sapore di terra in bocca , sabbia che graffia il viso … carta vetrata che abrade , il rumore delle unghie che si spezzano mentre graffiano un blocco di pietra e cemento. Mi manca l’aria , ma non posso morire adesso. Fuori il mondo mi aspetta. Verranno a salvarmi, lo sento . Respiro. Ora devo esplorare i confini della mia tomba, limitare i danni, preservare la lucidità mentale che mi è rimasta. Sopravvivo. I miei polpastrelli diventano i miei occhi: se c’è una via d’uscita in questo inferno , loro me la indicheranno. Traccio solchi invisibili sul muro di fronte a me , lo sento pulsare sotto le mie dita . E’ ruvido e freddo , come una distesa di foglie in inverno, solcate da scanalature invisibili agli occhi; è il tronco dell’albero della mia infanzia , le sbucciature sulle ginocchia, la crosta secca su vecchie ferite ;sono le mani di mio padre, ruvide e callose , forti eppure gentili ,mentre mi carezzano il viso. Riacquisto la calma . Immagini rassicuranti mi terranno in vita:le rughe di mia madre , una pelle temprata dalle intemperie di una vita dura , aspra ;sento mia madre sotto le mani , sopra la roccia che mi seppellisce e mi uccide; tocco una ruvida sacca di tela ,dentro la quale nascondersi per gioco, per rotolarsi sul fieno ; sfioro il legno scheggiato del vecchio pontile sul quale facemmo l’amore per la prima volta , i calli ai piedi in estate , quando non avevamo scarpe e correvamo liberi nei prati. Tasto queste pietre che mi sovrastano , rugose e scabre ,questa gola riarsa , tanto che anche l’aria mi graffia e mi trafigge nel tentativo di riempirmi i polmoni, queste labbra secche e screpolate , che anelano un’acqua che non potrà lenire la loro sete . La mia vita è raschiata via come una vernice secca e scolorita , con rapidi colpi di smeriglio. Domani forse non ci sarò più , il mio corpo avvizzirà ,aspro e ruvido , si trasformerà in sabbia. Quando lo riportarono in superficie , ancora respirava . I soccorritori non avrebbero mai creduto che dopo 72 ore dal crollo dell’edificio , ci potesse essere ancora qualcuno vivo in quell’inferno di pietre e cemento .Nella concitazione del momento nessuno si accorse della piccolissima pietra che il ragazzo teneva stretta in mano. Non la lasciò mai andare , dovettero sedarlo prima che allentasse la presa . Quella scheggia rimase il simbolo della sua rinascita per molti anni , finchè non venne dimenticata. La sensazione invece rimase , perenne , ogni volta che l’asprezza della vita prendeva il sopravvento: la percezione di qualcosa di ruvido sotto la pelle , il presentimento della morte che alitava sulla sua spalla .

Felicità

Afrah cammina sola per la via polverosa. E’ sgattaiolata fuori di casa, mentre la sua famiglia e quella del futuro sposo si accordavano sul suo prezzo . Alla stregua di una vacca, pensa . Conosce bene il suo acquirente: è un vecchio zio che la prenderà con sé come seconda moglie .Rabbrividisce al pensiero delle sue lunghe dita aguzze sulla sua giovane pelle, la sua bocca sdentata e maleodorante vicino al suo viso. Lei ha quattordici anni, lui quasi sessanta. La stoffa del burqa, impregnata di un liquido dal forte odore pungente, le limita i movimenti. Deve stare attenta a non inciampare, guardare dritta davanti a sé ; passi minuscoli , le hanno insegnato le altre donne di casa; respiri minuscoli, per cercare di trarre a sé quel poco ossigeno che circola sotto il tessuto pesante che l’avvolge e copre ogni centimetro della sua pelle. Deve affrettarsi, in casa si saranno di certo accorti della sua assenza. Non osa pensare a cosa potrebbe farle suo fratello, se la trovasse. Dietro la grata che le permette di intravedere la vita che le scorre accanto, la ragazza sorride, pensando all’ironia del suo destino: chi le ha dato il nome voleva sicuramente beffarsi di lei. Afrah significa felicità, ma da quando è nata di gioie nella sua vita ne ha vissute ben poche; il suo stesso essere donna è una condanna per chi è venuto al mondo, come lei, sotto l’egemonia talebana. Stranamente è proprio l’odore acre che le insozza i polmoni a farle tornare in mente gli unici momenti di spensieratezza della sua brevissima vita: una gita a Mazar; la macchina stipata all’inverosimile di corpi sudaticci e foulard che si agitano al vento percorre i tornanti della strada che li porterà a destinazione. L’odore di benzina e polvere nelle narici , il vociare allegro di sua madre e sua zia , il padre che intima loro di non ridere in maniera così sguaiata , ma lo fa in tono bonario, mentre sbircia soddisfatto le femmine della sua casa dallo specchietto retrovisore. Suo fratello ancora giovane la guarda con occhi buoni , le porge una bottiglietta d’acqua alla quale lei, una mocciosa di quattro anni, si attacca per bere avidamente . - Una vita fa- mormora Afrah, e le parole vorrebbero uscire da sotto il velo , percorrere la strada insieme a lei , arrivare alle orecchie della gente seduta ai margini della via, articolarsi fino a formare frasi di libertà, frasi intere di sofferenze patite e mai denunciate; di una prigione di stoffa che limita non solo i movimenti, ma anche i pensieri. Invece si perdono tra le trame del tessuto stesso, e muoiono, tristemente , sulle sue labbra. Afrah li sente parlottare tra di loro , gli uomini . La stanno additando sicuramente: una ragazza giovane che percorre la via da sola non è ben vista agli occhi di Dio. Sta violando la legge, è haaram. Lei però sa di essere quasi arrivata a destinazione, e non si cura di nulla . Neppure il sasso che le percuote la schiena turba il suo stato d’animo. Inciampa , cade, si rialza. E infine si ferma : di fronte, l’ingresso del tempio. Come in trance, le pare di sentire l’eco del richiamo del muezzin , mentre uomini in shalwaar kameez cominciano a mettersi in fila per entrare. Qualcuno sputa ai suoi piedi, ma lei non se ne accorge. L’odore forte della benzina l’ha resa quasi immune al dolore: è strano, le gira la testa, eppure si sente così leggera, libera, estatica. E’ dunque questo che si prova, a essere felici? Mentre armeggia con l’accendino, le tremano leggermente le mani :non è paura, e nemmeno delirio .In fondo , la sua anima è già morta nel momento in cui i suoi genitori l’hanno venduta. E’ un attimo: il fuoco divampa in pochi istanti, avvolge il burqa e lo divora , il tessuto scuro sembra quasi sciogliersi al contatto con le fiamme. Afrah le guarda :sono lingue azzurre e gialle, bellissime, e sembrano danzare di fronte ai suoi occhi. Le vede volteggiare tra le dita, saltare verso le braccia, circondare la fluente chioma. Il dolore la coglie improvvisamente, togliendole il respiro. Lei però sta in piedi: tutt’intorno si è fatto il vuoto, qualcuno grida, altri semplicemente stanno a guardare. Nessuno l’aiuterà, il fuoco espia le sue colpe e brucia la sua prigione. Se deve morire per essere libera , così sia. Quando arrivano i parenti, di Afrah non rimane niente altro che un mucchietto informe ancora fumante. Sua madre si batterà il petto e si strapperà i capelli , ma non per molto: l’offerta del vecchio è ancora valida e lei ha ancora una figlia da maritare. Poco importa che la sorella di Afrah, Laila, abbia solo nove anni. La bambina, ignara del suo destino, siede in terra e disegna piccoli cerchi col dito nella polvere. Trattiene una piccola lacrima che cerca di tracimarle dagli occhi acquosi, senza sapere perché. Afrah le manca già, ma ha imparato che nella vita è meglio non affezionarsi a niente perché nulla è eterno. Neppure il dolore .

martedì 26 maggio 2015

La speranza avvolta in stracci di lana

-Muoviti, Mariè, mamma ci sta chiamando! Il fratello maggiore urlò nell’orecchio del più piccolo che , con le mani ancora immerse nel veleno, stava cercando di ripulire un grosso pezzo di blenda dai residui d’argento . I fumi caustici gli arrossavano gli occhi, mentre con una pezza calata sul naso cercava di non respirare le esalazioni che si sollevavano dall’acqua , e che gli provocavano quei violenti accessi di tosse che lo tenevano sveglio la notte . Era talmente assorto nel suo lavoro da non rendersi conto che il fratello alle sue spalle lo chiamava a gran voce ,e sobbalzò quando sentì la mano di Francesco sulla sua esile spalla. -Cosa vuoi? Non ho mica finito. – disse, indicando i suoi compagni che , chini sulla vasca, eseguivano con meticolosità il suo stesso lavoro: una decina di piccoli soldatini pazienti e silenziosi che sfregavano i sassi coi palmi delle mani piagati e sanguinanti , fin troppo quieti considerato che non avevano più di cinque o sei anni. La loro madre, intanto, giaceva piegata in due a lato della via, reggendo il pesante grembo gorgogliante di vita con entrambe le mani ,con le gonne bagnate , mentre una donna accanto a lei cercava di sollevarla da terra . -Nasce!Nasce!- Francesco e Mario si guardarono in viso : avevano visto altre scene del genere in vita loro, ma mai avevano davvero compreso quello che stava per succedere , perché quelle erano cose da donne, e loro dovevano restarne fuori . Il minore dei due si accostò a sua madre, terrorizzato, mentre Francesco correva ad avvisare il capocantiere anche se , era sicuro, la notizia non sarebbe mai giunta in tempo a suo padre che , ignaro di tutto , scavava la nuda roccia in un tunnel freddo e angusto situato nelle viscere della montagna . Faticosamente le donne riuscirono ad arrivare fino alla casetta dove la famiglia Loddo risiedeva dal gennaio precedente . Pochissima mobilia , un letto di stracci e paglia in un angolo e un tavolo fatto di assi di legno , erano tutto ciò che avevano potuto permettersi fino a quel momento. Erano arrivati lì ,da Siliqua, dopo che Badore aveva perso il precedente lavoro come mezzadro a causa della malafede del padrone , che l’aveva accusato di aver avvelenato il pozzo . Rosas era stata una scelta obbligata ,l’unico modo per non morire di fame , anche se aveva comportato sacrifici immensi . Nessuna scuola per i bambini , nessuna assistenza in caso di malattia , la miniera toglieva loro la dignità e si prendeva la vita un pezzo per volta . Maria piangeva, non voleva quel bambino che stava per nascere . Aveva pensato di soffocarlo , perfino di affogarlo , una volta che fosse venuto alla luce. Voleva partorire da sola, e una volta cominciate le doglie si era nascosta dietro la lavanderia . Poi ,però, i dolori lancinanti l’avevano fatta desistere dal suo proposito e aveva chiamato aiuto, maledicendosi per averlo fatto. Quando aveva scoperto di essere nuovamente incinta aveva implorato il Signore, era perfino andata fino a Narcao alla ricerca di una mammana che l’aiutasse a sbarazzarsi della creatura , ma alla fine non c’era riuscita. Il fatto è che non poteva accettare di veder soffrire ancora la carne della sua carne , infliggendole una vita di fatiche e privazioni in quel luogo che era una condanna a morte. Inoltre i buoni da spendere allo spaccio, che costituivano la metà dell’esiguo stipendio , non sarebbero mai bastati per sfamare tutti , e avrebbe privato anche i figli maggiori , già molto debilitati, del sostentamento necessario per sopravvivere. Persa nei suoi pensieri non si accorse che Mario era lì in un angolo della stanza , al buio , e assisteva alla scena . Il bambino piangeva in silenzio :l’amica di sua madre aveva provato a scacciarlo, ma non c’era riuscita , e si era rassegnata ad avere quello spettatore inusuale , a patto che non si immischiasse e non facesse capricci. Agnese aveva assistito altre partorienti , in quel posto dimenticato da Dio, e sapeva che troppo sangue non era mai una cosa buona . Maria gemeva stremata , imprecando a ogni spinta mentre l’amica la incitava a dire il rosario , che sgranava tra le dita con fare frettoloso , incapace di prendere una decisione. -Vado a chiamare il padrone, lui saprà cosa fare – disse a voce alta a un certo punto, quasi dovesse convincere se stessa, anche se dubitava che il padrone l’avrebbe realmente ricevuta. Si sistemò lo scialle sui capelli e, dopo aver gettato un’ultima occhiata nell’angolo per assicurarsi che Mario fosse ancora lì , uscì di corsa . Avrebbe tentato l’impossibile per salvare la sua amica , ma in cuor suo sapeva che il dottore era troppo lontano e non sarebbe mai arrivato in tempo. Lasciato solo a badare alla madre, Mario si avvicinò al suo capezzale. Ora la donna non gemeva più. Il viso sudato e febbricitante rivolto al soffitto in una smorfia di dolore , gli occhi socchiusi: sembrava trasfigurata. Profondi solchi si erano aperti come voragini sulla sua pelle grigiastra , un tempo rosea e fresca, nere occhiaie contornavano gli occhi spenti . Il lavoro alla cava l’aveva rinsecchita, risucchiata :la madre di un tempo, dal petto generoso e dai fianchi abbondanti , i cui morbidi abbracci il bambino aveva tanto anelato , era scomparsa . Al posto suo una donna vecchia e sfatta , senz’altro da offrire ai suoi figli se non un boccone di pane, perché la miniera le aveva rubato anche la facoltà di dare amore. Se fosse morta in quel preciso momento, pensò Mario, nessuno se ne sarebbe accorto. D’un tratto percepì tangibilmente il peso di tutta un’intera esistenza, gli mancò l’aria, e mentre il fragile petto veniva scosso da una tosse stizzosa e prepotente , scoppiò in un incontenibile pianto . -Mammà, svegliati!Babbo arriva, non morire !- . La voce di Francesco risuonò nella stanza. Era arrivato trafelato , il sudore gli imperlava la fronte e colava sul colletto della camiciola sporca di fango . Per Maria fu come tornare in superficie da un tunnel buio e freddo. –Dunque è questo che si prova , quando si riemerge dal pozzo-fu il suo primo pensiero, e stava per dirlo ai suoi figli , quando le venne in mente il motivo per cui giaceva riversa sul letto al posto di spaccare le pietre in fabbrica con le sue compagne. Fu scossa da un tremito quando incontrò lo sguardo terrorizzato di Mario in piedi di fronte a lei , che le teneva la mano. Capì che non poteva morire, non doveva, perché i suoi bambini, i suoi figli adorati, non avevano altri che lei . Sarebbe sopravvissuta per loro , e per i figli che sarebbero venuti, Dio permettendo, dopo di loro . Anche questa vita che lei si ostinava a tenere in grembo aveva diritto di nascere. Quando Agnese, ore dopo , accompagnata dall’infermiera che era appena giunta dal paese , aprì la porta della casetta ,vide Maria ,esausta , che teneva in braccio la piccola Barbara, chiamata così in onore della santa protettrice dei minatori , e sorrise. Per la famiglia Loddo in quel momento era appena nata la speranza ,anche se avvolta in stracci di lana. Questo solo contava. Mario e Francesco sedevano su due sgabelli posti di fianco al letto , tenendosi per mano, le nocche bianche per il troppo stringere . Appena la donna varcò l’uscio , si alzarono in piedi , allentando la presa : era ora di tornare al lavoro, uno su per i cunicoli , l’altro alla vasca : la giornata non era ancora terminata

domenica 24 maggio 2015

Preghiera di un sogno infranto

Liberami dal male, la bugia che mi si ritorce contro, il flebile vagito di una creatura morente, il battito di un cuore spezzato e non più ricomposto. Liberami dal dolore, quel terrore che mi azzanna il corpo, l alito fetido che mi soffia addosso, il coraggio che ho perso nella battaglia che non ho giocato. Liberami la vita, lascia che la mia anima sia leggera, che il cielo diventi chiaro all’orizzonte e che, libero da questo peso che mi uccide , il mio sogno senza speranza si infranga dentro te.

Vuoto a perdere

Emma fumava nervosamente, la sigaretta pressata tra le dita, il filtro umido e colloso sporco di rossetto. La strada era deserta, non una macchina, non un lampo in lontananza, solo il crepitio del fuoco acceso in un vecchio barattolo arrugginito. Le altre, poco distanti da lei, barcollavano sul selciato, tentando di riscaldarsi un po’, e allo stesso tempo si tenevano pronte, qualora un cliente avesse solcato quella via alla ricerca di una compagnia per la notte che non avesse troppe pretese. Quattordici anni appena compiuti, la gonna troppo corta e le maniche lunghe della maglietta per nascondere le cicatrici che percorrevano le sue braccia: neppure il trucco e i vestiti provocanti potevano mascherare quei lineamenti delicati da bambina, quel corpo ancora acerbo, i seni appena accennati; la breve esistenza già così duramente segnata, unidirezionale, senz’altra via d’uscita se non la morte stessa; un vuoto a perdere, una bottiglia di vino novello che altri avevano già tracannato e prosciugato, rubando l’essenza stessa della vita a chi ancora la vita non l’aveva neppure vissuta. Una luce in lontananza rischiarò il buio. Due fari, come due occhi predatori, illuminavano i visi scarni, le orbite vuote, quelle gambe magre che a malapena si reggevano in piedi. Il cliente avrebbe fatto la sua scelta, avrebbe comprato il loro corpo ancora per una notte, si sarebbe cibato ancora una volta di quelle bambine dall’innocenza spezzata. La macchina si fermò davanti a Emma. La ragazzina si sentì percorrere da un brivido, mentre lo sportello si apriva, e un sessantenne affabile, dai modi signorili, la invitava a salire. Forse era il freddo, o forse la rota che cominciava a farsi sentire. Alle sue spalle, il magnaccia approvava la scelta del cliente, pregustando già l’odore delle banconote fruscianti che la trattativa avrebbe fruttato. Emma si sporse in avanti e con movimenti goffi riuscì a entrare nell’abitacolo. L’uomo sorrise, le accarezzò una coscia. La sua mano era così ruvida, sentiva la pelle bruciarle sotto quel contatto. Lei chiuse lo sportello e si raggomitolò sul sedile. Senza parlare raggiunsero un luogo appartato di fronte alla spiaggia. La ragazzina lo conosceva bene, c’erano venuti altre volte. Era lo stesso luogo nel quale era stata violentata la prima volta. Allora aveva opposto resistenza, aveva perfino urlato, fino a perdere la voce, ma nessuno era venuto a salvarla. In seguito aveva capito che non ne valeva la pena. Era in una terra straniera, venduta al miglior offerente per poche migliaia di euro da chi l’avrebbe dovuta proteggere. Nessuno la stava cercando, nessuno l’avrebbe riportata a casa. La luna era così bella, quella notte. Lui le prese il braccio, era un cliente abituale, premuroso nei confronti dei suoi bisogni. Lei lo lasciò fare, scivolando lentamente in un dolce oblio mentre lui le iniettava quel liquido benedetto, che si diffondeva in tutto il corpo attraverso il suo sangue e la faceva stare così bene. Dimenticò l’aria soffocante della macchina, dimenticò l’uomo che ora ansimava sul suo petto e le alitava in faccia il suo disprezzo e il suo godimento, scordò il suo stesso corpo che giaceva ormai vuoto, una preda squarciata senza più forza per lottare . Emma volò sulla luna, lontano dall’orrore e dalla sofferenza, volò su nel cielo nero, vide se stessa dissanguarsi lentamente, seccarsi come un fiore nel deserto e appassire… e non fece più ritorno. Il mattino dopo alcuni passanti la ritrovarono sulla spiaggia, la faccia riversa nell’acqua i capelli come alghe che fluttuavano tutt’intorno. Baby prostituta muore di overdose, era il titolo del trafiletto che le dedicarono i giornali in una pagina remota tra la cronaca regionale e i necrologi. Nessuno reclamò il suo corpo. Nessuno pianse mai sulla sua tomba. Fu come se non fosse mai esistita. Emma era diventata un pezzo di luna.

La stella gialla

Rosso scarlatto è il prato che si estende davanti ai miei occhi, come sangue che scorre vivo, come un torrente che sgorga da ferita aperta. Gialle ginestre ingannatrici mi sbarrano la strada, mentre tento di scappare via dal tormento che mi divora, come preda braccata dal cacciatore di morte. Tu vedi solo un campo di fiori. Io sento le spine che mi lacerano le gambe, le braccia, il volto. Nella mia folle corsa vedo l’inferno in terra, anche se ha il profumo di mille e mille corolle aperte al sole. Ma il cielo è terso sopra la tua testa, non senti il rombo del tuono che lo attraversa, non vedi le ombre delle bombe che aprono crateri sul suolo. La guerra è solo un eco lontano, per te. Solo la notte i roghi accesi acquistano vita e il bagliore dei fuochi accende il buio di tante piccole stelle rosse. Ma tu dormi, non vedi il mio dolore, non senti il mio lamento. Mi troverai sotto un cespuglio di ginestra, giallo come la stella che porto cucita addosso. Ti sembrerò addormentata, o morta, o forse solo indifesa e impaurita, ma non proverai pena per me. Il tuo istinto di sopravvivenza non te lo consentirà. Girerai lo sguardo verso i fiori e il cielo e mi dimenticherai in quello stesso istante. Non noterai la cenere che come neve cade lenta, trasportata dal vento, anche quando spegnerà i colori, depositandosi su tutto ciò che vedi come un mantello. Non sentirai il fetore dell’inganno e dell’odio, perché i tuoi sensi saranno rapiti dall’immensa natura che si scopre nuda davanti ai tuoi occhi. Io marcirò sulla terra e la terra sarà il mio sepolcro. Le piogge laveranno il mio corpo, e il vento spargerà i miei resti. Altri fiori nasceranno sulla mia tomba, nutrendosi di quel che resta di me. Non ricorderai null’altro, solo il biondo dorato delle spighe e i petali ocra che danzano nella brezza. Un giorno d’inverno ti racconteranno dell’inferno in terra che sorgeva proprio là, tra i campi incolti, dietro la collina. Inorridirai e piangerai calde lacrime, ma non per me. Farà breccia nel tuo cuore l’immagine di una stella gialla tra le ginestre e i papaveri. Poi la primavera, col suo delizioso pennello arcobaleno, tingerà di nuovo la campagna di rosso e oro e il mio ricordo scivolerà lento nell’oblio.

Il profumo dell'inganno

Il profumo dei limoni si spande nella stanza , mentre spezzo il frutto giallo , lo spremo, verso quel liquido chiaro nel bicchiere che ho di fronte a me , sul tavolino. Una crepa percorre il vetro per tutta la sua lunghezza .Lo girerò dall’altra parte, così mentre berrò non mi farò male. Strano, davvero strano , quest’istinto di conservazione che viene fuori proprio ora, nel momento meno opportuno . Raccolgo gli altri cocci da terra . Se tu vedessi il disordine di questa stanza… ma tu non vedi, e non puoi più sentire . Mi lecco le dita. Il gusto aspro , potente, mi esplode in bocca , mi proietta verso sensazioni ancestrali , confuse, uterine. Tossisco .E’ uno sbaglio, penso ,uno scherzo della natura. Com’ è ingannevole questa giostra , questa vita! E’ un odore fuorviante , quello che si sprigiona dalla buccia butterata e lucida ;un odore che sa di buono, che carezza i sensi e fa viaggiare la mente verso paesaggi ad acquerello, ondeggianti di morbide colline e alberi dalle foglie larghe e profumate . E’ il sole che ora riempie quest’angusta stanza , giallo e splendente .E’ il calore che s’irradia sulla mia pelle , prima raggiunge le mani , poi le braccia , infine il petto . L’odore nasconde , omette, cela. Nessuno penserebbe che un così bel frutto possa ferire il palato, bruciare sulla lingua . Nessuno penserà che un mondo così bello potrebbe offrire altrettanto dolore e sofferenza a chi cerca disperatamente di nutrirsene per sopravvivere . Io per primo ero stato ingannato. Bevo. Dimentico di girare il bicchiere . Mi ferisco le labbra . Il gusto del sangue copre l’asprezza del succo di limone misto al veleno . Fra pochi istanti , quando andrò a dormire , sognerò per l’ultima volta . Volerò fino all’immenso giardino ,oltre il muro a secco , dietro la casa della mia infanzia, tra gli alberi profumati dei cedri e dei limoni ,là dove una volta ebbi l’ardire di pensare di aver trovato la felicità, insieme a te . Povero sciocco ero ; e mi rifugerò un’altra volta ancora all’ombra di quelle fronde, prima dell’ultimo viaggio . Ora il calore dal petto sale e mi circonda le tempie. Piccolo , innocente fanciullo che ero , mi sdraierò sotto una coltre di foglie ; il mio vecchio cuore non regge l’attesa . Non arriverò mai in tempo all’appuntamento con il mio destino .Tremo. Arranco verso il letto. Ce l’ho fatta, le sono accanto . Lei è ancora lì, gli occhi aperti , ma non mi guarda più . Lei che fuori aveva ancora le sembianze del sole , ma sotto l’involucro era ormai inasprita e secca. Andiamo via insieme , mio tesoro . Niente più sofferenze per noi . Passeggeremo nel giardino rifugio del nostro cuore , e tu ricorderai tutto quello che finora hai dovuto dimenticare . Ti stringo la mano, fredda nella morte, e sorrido al pensiero del calore che invece mi sta soffocando . Aspettami, non ti muovere. Fra poco sarò con te . Quando la polizia scoprì i corpi , tempo dopo, erano ormai ridotti a un mucchietto d’ossa . Nessun parente aveva denunciato la scomparsa , nessun vicino si era accorto che in quella casetta rosa, alla fine del viale, un vecchio si era tolto la vita , dopo aver ucciso sua moglie , da tempo malata, somministrandole del veleno nella limonata . Chi passava da quelle parti giurò di aver sentito , nell’aria , un profumo , come di fiori di cedro … ma forse era solo un’illusione , un’inganno di quel mondo che non aveva voluto vedere la sofferenza in quella triste realtà, pregna di infermità e solitudine.

Hansel e Gretel

-Svelti bambini, dobbiamo fare in fretta-. Papà Assan aveva radunato in una piccola borsa il necessario per il viaggio, pochi oggetti appartenuti alla sua famiglia da generazioni, che sarebbero serviti per pagare i corrieri, e qualcosa da mangiare, in attesa del camion che li avrebbe trasportati al campo profughi. La sua seconda moglie Ania, incinta di sei mesi, visibilmente affaticata, si sistemava il velo sulla testa , senza degnare di uno sguardo i bambini che le giravano intorno. Hansel e Gretel non le erano mai stati simpatici. Erano i figli della prima moglie di Assan, e non l’avevano mai accettata come matrigna, nonostante la madre naturale fosse morta da parecchi anni. Quei nomi poi erano davvero inconsueti, le riportavano alla mente una assurda fiaba che aveva letto un giorno, tanto tempo fa, su una rivista europea che aveva scovato in casa, appartenuta probabilmente alla prima moglie di suo marito. Parlava di due bambini che si perdevano in un bosco. -Haaram- imprecò a denti stretti: lo chador non ne voleva sapere di stare fermo sulla sua testa. -Habibi, porta pazienza, fra non molto arriveranno- cercò di rincuorarla Assan. Era una notte di luna piena, il riverbero della luce bianca che fendeva l’aria creava un gioco d’ombre che faceva sembrare la città diversa: le macerie facevano meno tristezza , una pace illusoria avvolgeva tutto e scacciava la paura. Gretel smise di correre per ammirare quell’incantesimo, e Hansel si mise vicino a lei. Aveva sempre avuto un occhio di riguardo per quella sorellina troppo fragile, troppo eterea, che avrebbe potuto svanire in un lampo, dissolversi come nebbia alle prime luci dell’alba, se messa troppo velocemente di fronte alla crudeltà e alla durezza del mondo che li circondava. -Hansel, dove stiamo andando?- Era stato tutto troppo repentino per lei, non aveva ancora preso coscienza di ciò che stava accadendo, pensava che sarebbero andati a fare una scampagnata e che sarebbero tornati in tempo per cena. -Habibti, baba ci porta in un posto lontano, dove i bambini possono giocare per strada senza paura, e ci sono tanti gelati e le aiuole sono piene di fiori- -E quando torniamo a casa?- -Non lo so , habibti- -E se perdiamo la strada ?- Hansel ci riflettè un poco. Poi si chinò e prese da terra alcuni sassolini bianchi: erano gli stessi che avevano calpestato mille volte quando rientravano a casa da scuola, che avevano tirato per gioco cercando di centrare un buco profondo nel muro di fronte alla porta di casa, ricordo di una detonazione di qualche anno prima. Pensò a una fiaba che sua madre gli leggeva sempre prima di andare a dormire, e sorrise. -Vedi questi Gretel? Li porteremo con noi, e ogni volta che ci fermeremo ne lasceremo cadere uno. Così, quando vorremo tornare a casa, non ci resterà che cercare questi sassolini bianchi. Gretel si illuminò. Il fratello sapeva trovare sempre una soluzione ai suoi problemi.Ci sarebbe sempre stato, per lei, e l’avrebbe protetta. Non poteva neppure immaginare una vita senza il suo Hansel . -Sei sicuro che funzionerà?- Un velo di tristezza le offuscò lo sguardo. Suo fratello se ne accorse e la strinse dolcemente contro il suo petto. Aveva giurato sul letto di morte di sua madre: avrebbe pensato lui a Gretel, e se necessario avrebbe dato la vita per lei. -Vieni habibi, ti faccio vedere come funziona: vedi, a ogni passo lasciamo un sassolino, arriviamo fino a quella strada, svoltiamo l’angolo e arriviamo alla vecchia scuola. Riprenderemo i sassolini al ritorno. Sarà facile, vedrai .- Né Assan né Ania videro i bambini che si allontanavano . Il camion arrivò avvolto da una nube di polvere. Assan aiutò sua moglie a salire. C’erano altre donne stipate sul rimorchio. Alcune indossavano il burqa, altre tenevano il viso basso e stringevano i bambini al petto. C’erano anche alcuni uomini, tenevano in mano i fucili, pronti a fare fuoco alla prima occasione. Stavano scappando per sempre, non sarebbero più tornati indietro. -Hansel, Gretel, dove siete finiti?- Assan sapeva che era pericoloso urlare, avrebbero attirato attenzioni indiscrete, ma i bambini non c’erano. Li aveva persi di vista mentre metteva la catena alla porta di quella che era stata la sua casa per ben dieci anni, e i suoi figli si erano allontanati. Sapeva che non c’era più tempo, il camion sarebbe ripartito in pochi minuti, sentiva già i lamenti di Ania che lo supplicava di venir via: -Assan, se la caveranno, dobbiamo partire. Pensa al bambino che ho in grembo, moriremo senza di te. Hansel è quasi un uomo, saprà cavarsela!- Quando Hansel sbucò da dietro le mura in fondo alla strada, seguito da Gretel che si aggrappava alla sua mano come un naufrago al relitto della sua nave, il camion era già lontano, inghiottito dalla stessa nube di polvere che l’aveva accompagnato al suo arrivo. -Hansel, dov’è baba?-. Il fratello non disse nulla, anche se sapeva la risposta. Vide la borsa che suo padre aveva preparato, che li attendeva adagiata sul selciato davanti al cancello. Una lacrima tentò di rompere gli argini del pianto, ma il bambino la scacciò via tirando su col naso, perché la sorella non si accorgesse del suo cuore spezzato. La notte era particolarmente tranquilla, non si udiva alcun rumore, anche le cicale avevano smesso di frinire. La luna continuava a brillare alta nel cielo , e mancavano ancora molte ore all’alba. La città sembrava deserta. -Hansel, ho freddo- -Vieni qui habibti, prendi la mia giacca- -Fratellino, quante sono le stelle nel cielo ?- -Non lo so, non le ho mai contate.- -Somigliano ai nostri sassolini, sono tonde e bianche- -Hai ragione sorellina- -Hansel perché la mamma non è tornata da noi? Hai detto che un giorno sarebbe tornata – Il cuore di Hansel ebbe un tumulto -Non ha trovato la strada di casa, habibti… lei non aveva i sassolini bianchi, come noi. -Poteva seguire le stelle…- D’improvviso una luce accecante fendette l’aria e un tremendo boato fece tremare la terra tutt’intorno. Una nube di polvere accecò i loro occhi mentre un nugolo di schegge impazzite fendeva l’aria. Hansel fece appena in tempo a buttarsi addosso alla sorella. Poi un muro di nebbia avvolse i suoi pensieri . Quando si svegliò vide sua madre, avvolta da una corona di luce, che gli tendeva le braccia aperte, e capì . -Ummi …- Gretel stava rannicchiata contro il muro. Piangeva senza far rumore, per non turbare il silenzio che ora li avvolgeva. -Hansel, ho paura… stringimi la mano, è buio e ho freddo… Hansel, voglio tornare a casa…- Ma Hansel non rispondeva più , la testa reclinata di lato, gli occhi persi a scrutare altri orizzonti. Niente più streghe o fate per lui, o favole raccontate al chiarore della luna. Solo il sibilo di una bomba che aveva spezzato per sempre la sua giovane vita. Nella mano teneva stretti i sassolini che aveva raccolto davanti all’uscio della sua casa, che adesso era ridotta a un cumulo di macerie. Sopra di lui solo il cielo, illuminato da mille stelle piangenti, nella lunga notte di Gaza.

domenica 15 febbraio 2015

Medea

Cosa nascondi sotto quella maschera? cos'è che vuoi celare, dietro quello sguardo liquido che appena s'intravede dietro il muro che hai eretto tra te e il mondo? Nessuno poteva sapere, nessuno l'avrebbe intuito... hai affondato i tuoi piedi nella sabbia, ti sei abbandonata tra i flutti , trascinandoti dietro tutto l 'amore che la vita ti aveva riservato, e dal quale non ti saresti separata. Mai . Quell'amore che per te non sarebbe mai stato abbastanza ,che pulsava come un oscuro male dentro il tuo cuore , e dal quale non saresti mai guarita . Ogni tanto , forse, alzavi lo sguardo sul mondo, ma il mondo era troppo occupato ad andare avanti, per accorgersi delle tue lacrime , della tua sofferenza. Forse tu hai messo la maschera, ma nessuno si è preoccupato di togliertela da dosso, per negligenza , o paura di sapere cosa poteva nascondersi dietro: il dolore fa male non solo a chi lo sente, ma anche a chi lo vede .Ora il tuo amore si è perso fra le onde, e tu non avrai mai abbastanza lacrime per piangere ciò che hai lasciato . Medea dei nostri giorni , ora ti vedo: hai perso la maschera lì, tra la bianca spuma e i flutti.

Fantasmi

Una stanza buia, l'odore acre di sigarette e muffa , l'aria pesante :solo una luce illumina la parete sotto la finestra chiusa , quella della tv accesa, lo schermo grigio che emette vividi bagliori intermittenti. Anna è stesa sul divano , quasi inghiottita dalla stoffa lacera e consunta. Un braccio penzola inerme verso il pavimento, sporco di vomito e urina. -Mamma, svegliati , devo andare a scuola-. La voce di Alice è quasi un sussurro. Sua madre non sente , non vede, eppure non è morta. Giace in uno stato di incoscienza , in un limbo di ebbrezza e paranoie. Sua madre c'è, ma lei si sente orfana lo stesso. Preparerà la colazione, Alice, butterà via il latte scaduto , bollirà un po' d'acqua per il the, e lascerà una tazza di quel liquido dolce e bollente sul tavolino . Se sarà fortunata,come ogni tanto capita, al suo ritorno non la troverà ancora lì, la tazza . Si illude, Alice: prende la cartella , apre la porta senza far rumore, e la richiude alle sue spalle. Prima di uscire ha messo un plaid sulle spalle di sua madre , così non prende freddo. Undici anni, eppure si sente così stanca. Vecchia. Sfoggia il suo più bel sorriso, oggi ha l'interrogazione di matematica , sarà la migliore, come sempre . Nessuno conoscerà mai il suo segreto, nessuno potrà smascherare la sua anima carica di vergogna e pianto . Al padre , che ogni tanto le telefona , dirà che la madre sta bene , è felice e non soffre. Immagina, Alice:tornerà a casa dopo la scuola , e magari la troverà la in piedi, intenta a cucinare una cenetta solo per loro ;la casa sarà pulita e luminosa. Lei l'abbraccerà forte , e le dirà quanto le dispiace . Poi accenderanno un po' di musica e balleranno al ritmo delle note di un motivetto sciocco ; infine cadranno sul pavimento ,ridendo fino alle lacrime . Ma, una volta giunta davanti all'uscio, si rende conto che non proviene nessuna musica dall'interno dell' appartamento. Solo un rumore sconnesso , un sibilo , grida soffocate . Fantasmi che si rincorrono, rimbalzano da un muro all' altro, invadono l'anima e la portano alla dannazione eterna. Alice ,però , non ha paura dei fantasmi , è una bambina coraggiosa, lei : si toglie la maschera, la ripiega con cura ,e fa capolino nella stanza. La rimetterà domani, di fronte al mondo che non deve vedere, che non deve capire, che non può che ignorare. Non è stata fortunata , oggi. La tazza è ancora sul tavolino , il liquido ormai freddo giace immobile al suo interno . Sua madre è seduta, ora. Le ginocchia premute sul petto, raggomitolata come una bambina spaurita, dondola la testa , gli occhi vacui si perdono nelle orbite raggrinzite .-Ciao , mamma, sono tornata.- .La voce che sbatte sui muri e torna indietro, nessuno l'ha sentita . Domani Alice tornerà a fingere , ma non adesso: scuote quel corpo orribile che l'ha generata , trattiene il fiato per non sentire il fetore di sofferenza che emana . Insulta, grida. Ma non ottiene niente . Non uno sguardo. Non un gemito . Aggrappata alla sua maschera ,Alice si ricompone. Domani è un altro giorno. Domani mamma guarisce . Se faccio finta di non vederlo, il dolore, forse, cesserà di esistere .