sabato 27 settembre 2014

Il volo degli aquiloni

Avevo solo 12 anni. Ed ero sola al mondo.Adesso, seduta su questa spiaggia, assaporo ogni istante nel vano tentativo di recuperare ciò che è andato perduto, come se la brezza leggera che mi carezza il viso potesse trasportare particelle di un passato andato disperso incanalandole verso di me , e io riuscissi nuovamente a catturare quella polvere di ricordi che fluttua nell'aria per ricostruire la mia vita andata in pezzi. Così ripercorro a ritroso gli eventi che mi hanno portato a essere ciò che rappresento adesso , un'anima errante che cerca disperatamente di ricucire il filo dei suoi pensieri . Lei c' era sempre stata. Non ho un ricordo nel quale lei non sia presente. Eravamo in simbiosi noi due, gemelle nate da due madri diverse , in date differenti, eppure uguali nell'anima. O forse ci sembrava solo di esserlo.Ombretta era solare , riccioluta , testarda.Io silenziosa, bionda e sciapa come certe pagnotte che mia madre comprava dal panettiere nei giorni di festa .Lei il sole, io la luna. Lei la luce, io l'ombra. Una cosa in comune però a pensarci bene l' avevamo. Eravamo entrambe nate in un paese di fantasmi e sogni infranti.Seicento anime senza futuro , nate e cresciute all'ombra delle montagne , di fronte a un mare perennemente in tempesta che ogni tanto si divertiva a divorare le barche di pescatori con tutto il loro contenuto umano a bordo . Un paese di casette dipinte , come in un acquerello stinto, collegate al resto del mondo tramite un groviglio di strade contorte e poco percorse da chi non era come noi .La prima volta che ci vedemmo fu proprio davanti a quel mare, stranamente calmo in uno dei suoi momenti letargici che precedevano la tramontana . Avevamo si e no dodici anni in due : Ombretta, col cappellino calato sugli occhi, era intenta a frugare tra i granelli d sabbia ,alla ricerca di un tesoro nascosto che brillava solo ai suoi occhi , col costumino rosa pallido troppo grande per lei , e un paio di ciabatte troppo piccole per i suoi piedini in continua crescita , che le lasciavano uscire gli alluci tondi e paffuti.Ma lei non ci faceva caso, era abituata ad essere sempre fuori luogo, troppo piccola per gli adulti, troppo grande per i suoi coetanei, troppo libera per abitare in quella prigione senza sbarre che era il nostro paese natio .Ragion per cui si sentiva lo stesso a suo agio in ogni situazione , e trovava sempre qualcosa che la facesse sorridere. Poi, all'altro capo della sottile striscia di sabbia che a noi era sempre sembrata un tragitto troppo lungo per arrivare sino all' acqua( da percorrere rigorosamente di corsa, nell' entusiasmo infantile che precede sempre la vista del mare) , c' ero io : magra come un chiodo , gli occhi sempre sul punto di riempirsi di lacrime e la candela di moccio al naso .Ingobbita e rattrappita su me stessa , cercavo di nascondermi e mimetizzarmi col paesaggio, assorta nei miei pensieri , dentro il mio costume olimpionico da campionessa di nuoto mancata . Io che avevo sempre la roba su misura grazie a una miriade di cugine più grandi che mi passavano vestiti di tutte le taglie , le scarpe che calzavano alla perfezione, ero costretta a stare compressa in un personaggio che gli altri avevano inventato per me, senza tenere conto delle proporzioni della mia anima , che già allora tentava invano di adattarsi a quello che gli altri avevano già scritto sul foglio bianco della mia vita. Eppure mi sentivo perennemente soffocare . Io , Elena Bondi, all'età di 5 anni avevo già un notevole carico di responsabilità sul groppone :dovevo essere sempre brava e rispettosa, perché essendo la prima di quattro fratelli non dovevo mai far arrabbiare mia madre e anzi avevo il dovere di aiutarla, come conveniva a una primogenita che si rispetti. Dovevo diventare invisibile, perché venivano prima le richieste dei più piccoli delle mie, e quando arrivava il mio turno mia madre era ormai così stanca e satura di lagne e lamenti , da ignorare completamente i miei bisogni , e anzi , spesso le uniche gentilezze che mi concedeva erano le carezze a suon di ciabattate sulle chiappe. Anche Ombretta aveva dei fratelli, due pesti che non facevano altro che combinare guai a destra e a manca, mentre la loro povera madre penava per loro , eppure sembrava non curarsene.E dire che anche lei di attenzioni ne riceveva ben poche :si diceva in giro che mangiasse solo nei giorni dispari, perché nei pari non avevano mai un soldo(il pregio dell'invisibilità quando si è piccoli è poter sentire i discorsi che i grandi fanno di fronte a te pensando che non capirai le loro parole, convinti forse di parlare una lingua diversa, o che a cinque anni si sia ancora così scemi da non comprendere il filo di un discorso)e spesso le comari amiche di mia madre accennavano al fatto che fosse un po' matta e che l'ultima gravidanza le avesse dato alla testa.< Ma cosa si poteva pretendere da una che si faceva ingravidare a destra e a manca ?> Dicevano scuotendo il capo in segno d forte disapprovazione. In effetti io il padre di Ombretta non l'avevo mai visto , ma pensavo che fosse una fortuna, mica una sventura! Il mio non c' era mai, ma quando rientrava dal mare una volta al mese dovevamo stare tutti in silenzio: la mattina quando ci svegliavamo non potevamo sicuramente saltare sul lettone alla ricerca della mamma ! trovavamo la porta della camera da letto chiusa a chiave , e un vago odore di alcool e di tabacco che fuoriusciva da sotto la porta. Quando c'era lui poi mamma era sempre un po' più triste e evitava pure quel minimo di smancerie e coccole che ci elargiva già col contagocce durante l arco della giornata . Il peggio però avveniva alla sera , quando papà rientrava dalla bettola cantando e reggendosi a malapena in piedi , col volto paonazzo e gli occhi languidi da muggine .Non ricordo una volta che ci abbia messo le mani addosso, né a me né ai miei fratelli, ma l'immagine di papà che rientra dal bar ancora adesso mi mette in soggezione . Era in quelle occasioni che ammiravo mia madre per come gestiva la situazione. Secondo me è grazie a lei che non ci è mai capitato nulla di sgradevole .Quando sentiva la voce del marito che percorreva la via del ritorno ci mandava a letto in fretta e furia , chiudeva la porta della nostra camera e si metteva ad attenderlo sull' uscio , con le braccia conserte e un espressione grave sul viso. A volte saltavo dalla finestra e mi mettevo a spiarli da dietro la siepe che cresceva rigogliosa in giardino. Li sentivo parlare , lui biascicava, lei gli frugava nelle tasche in cerca di qualche spicciolo che mio padre non avesse speso in bevute , poi lui alzava la voce e la colpiva, ma lei si rialzava e si puliva composta il sangue che le usciva dal naso con un fazzoletto , senza emettere un lamento . Poi si parava davanti a lui, la mano tesa , aspettando il misero guadagno del marito, o più di frequente quel che ne rimaneva. Infine lui cedeva , vinto dal rimorso per quel sangue che faceva bella mostra di sé sul tovagliolo bianco (o a volte per la tumefazione dell' occhio di mamma che cominciava a virare sui toni del rosso e del viola, fino a gonfiarsi come un limone, dipendeva sempre dalla forza e dalla traiettoria del pugno che papà sferrava ).Quindi la porta veniva chiusa, entrambi entravano in casa, sentivo papà che piangeva e chiedeva scusa e mamma che lo consolava , e io tornavo ad arrampicarmi dalla finestra e me ne rientravo al calduccio sotto le coperte, trattenendo la pipì per non dover uscire ad affrontare il siparietto pietoso che veniva recitato in cucina . Piangevo in silenzio , pregando Dio che mio padre partisse il più presto possibile e il mare lo divorasse com' era successo al padre di Ombretta. Quando poi il giorno dopo ci svegliavamo, sapevamo che lui era partito perché la porta della camera dei miei genitori era aperta , quindi andavamo a svegliare mamma che in quelle occasioni rimaneva a letto tutto il santo giorno con gli occhi pieni di lacrime, e noi non capivamo perché papà le mancasse così tanto da renderla triste tutte le volte che partiva. La prima volta che vidi Ombretta ero triste, puzzavo ancora di pane e latte e tiravo su col naso le lacrime.Più guardavo verso quella bambina riccia e sudicia intenta a cercare tesori, e più mi saliva la rabbia. Come poteva essere lei così spensierata? lei che non aveva padre, con la madre depressa e i fratellini disgraziati, lei che (lo sapevano tutti) prendeva le botte da tutti gli amici che la sua mamma faceva entrare in casa.Lei che non aveva acqua corrente per lavarsi e neppure un pasto caldo al giorno . Da quel momento l'amai in modo smisurato.Lei era tutto quello che non avrei voluto essere e nello stesso tempo l'unica persona alla quale avrei voluto somigliare .L'amai perché era vento che scacciava via le nuvole , e l'odiai perché io a scacciare le nuvole non ci sarei mai riuscita .Lei parve accorgersene, tant'è che si girò verso di me e sorrise.Da quel giorno in poi, ogni volta che ci trovavamo insieme in spiaggia(e accadeva spesso, nel tentativo di sfuggire al nostro quotidiano tormento ) ci avvicinavamo un po' di più. Senza parlare, senza dire nulla che fosse fuori luogo , imparammo a conoscerci in silenzio , a invadere l' una lo spazio vitale dell' altra senza far rumore, e io nascosi la rabbia che la sua presenza mi faceva montare nel cuore come un cavallo al galoppo, in un angolino nascoso della mia anima, e ve la chiusi a chiave . Avete mai provato a far volare due aquiloni nelle giornate ventose ? Se finiscono per stare troppo vicini inevitabilmente arriveranno ad urtarsi e cadranno miseramente.A volte ne va giù solo uno, e l'altro continua a volteggiare come se niente fosse, anche se il solo fatto di rimanere solo ad affrontare le correnti lo rende più vulnerabile e suscettibile agli umori del tempo .Invece, se si riesce a trovare la giusta distanza tra l uno e l'altro, essi riusciranno a volare insieme , muovendosi in sincrono in un eterna danza col vento. E noi due questa sincronia l'avevamo trovata. Passare dai silenzi alle parole fu facile.Sembrava che ci conoscessimo da sempre , i miei ricordi diventarono i suoi , e viceversa, quello che lei pensava io facevo, e così via. Conservo rari ricordi di quelle prime estati.Io e Ombretta intente a giocare sulla sabbia, o a tenerci per mano, e la sagoma di mio padre , in lontananza, seduto sul muretto, la sigaretta che brilla nella penombra della sera. Sono le uniche immagini di mio padre che ricordo con piacere .Fumava, ci guardava e sorrideva.Anche se non era un'espressione felice , la sua.Piuttosto era un sorriso nostalgico .Ora che sono al corrente di tutta la storia, capisco tante cose.Ma a quel tempo ero solo una bambina , contenta che il suo papà , anche se da lontano ,si accorgesse che esisteva anche lei . L'estate volse rapidamente al termine .Ringraziavo Iddio( ero ancora molto credente in quel periodo della mia vita, grazie al lascito della mia nonna paterna, che prima di morire mi volle lasciare la sua bibbia illustrata, non prima di avermi spiegato termini come punizione eterna, ira di Dio, miracoli e grazia ) per quell' amicizia capitata così , tra capo e collo, in una giornata iniziata con i peggiori auspici, perché a scuola avrei potuto avere Ombretta come compagna di banco e non mi sarei dovuta sedere vicino a qualche altra coetanea della quale non sapevo nulla.Il nostro era un paese di vecchi, donne e bambini : gli uomini erano sempre in mare e i ragazzi che non si imbarcavano partivano alla ricerca del Sacro Graal che li riscattasse da una vita di miseria e patimenti.A volte ce la facevano , e mandavano cartoline coloratissime ai genitori e fotografie in bianco e nero di città piene di vita e visi sorridenti, destinati a non rimettere più piede a Grottafalciata neppure per una vacanza. Altre volte la maledizione del nostro paese li raggiungeva proprio quando pensavano di essere ormai al sicuro e infrangeva tutte le loro speranze.Alcuni tornavano, e prendevano il posto dei loro padri sulle barche a capo chino , arrendendosi a quel destino cieco che non prendeva in considerazione le ambizioni e i sogni di ciascuno di loro .Quanto a me , io non ho mai voluto fuggire. E' stato il paese stesso a vomitarmi fuori , come una sostanza indigesta , perché, come ogni buco dimenticato da Dio che si rispetti, si può accettare ogni orrore, l'importante è arginare gli scandali dietro un muro di omertà .Se si fa finta di non vedere, è più facile cancellare i misfatti. Poco importa se sotto i portici e dietro alle sigarette non si parli d'altro, finchè lo si fa sotto voce e allusivamente. L'importante è non gridare i misfatti ai quattro venti.In questo modo si può tollerare qualsiasi cosa.A sei anni però noi eravamo ancora all'oscuro di queste dinamiche e ci godevamo ognuna a modo suo la fanciullezza e la seppur breve innocenza di bambine non troppo spensierate, ma ancora troppo piccole per esserne totalmente consapevoli. Il primo giorno di scuola fremevo. Mamma aveva recuperato un libro da una delle mie numerose cugine e qualche settimana prima aveva cercato di inculcarmi in testa l'alfabeto in stampatello maiuscolo , con scarsi risultati.Diciamo che , anche se non ero interessata in alcun modo a imparare a leggere, il solo fatto che mia madre mi dedicasse del tempo esclusivo per insegnarmi qualcosa mi mandava in estasi , e aspettavo con ansia che arrivasse la sera per stare sveglia un po’ più dei miei fratelli , con il libro in mano e mamma accanto a me che sillabava le lettere una ad una .Credo che siano i momenti più felici in assoluto che ho passato in sua compagnia, cerco di serbare questo ricordo il più possibile , per addolcirne la memoria , anche se spesso affiorano solo pensieri neri attorno alla sua figura.Non era colpa sua , non lo è mai stata , ma perdonarla mi è così doloroso, che preferisco chiudere a chiave anche il suo viso nel mio cuore, e così l immagine di lei sbiadisce giorno dopo giorno nella mia mente.Non si può odiare chi non possiede più un volto o una voce. Il piccolo cortile della scuola era gremito di bambini.Cercai Ombretta con lo sguardo, un misto di paura e preoccupazione all'idea di non trovarla, che mi attanagliavano il petto.Infine scorsi i suoi ricci dietro il tronco dell' albero cavo che faceva bella mostra di sé in mezzo al cortile. Non mi avvicinai subito perché qualcosa mi bloccò. Notavo le altre bambine che facevano capannello attorno a Emma, la figlia del sindaco , e ridacchiavano lanciando delle occhiatacce divertite in direzione di Ombretta. Ad un certo punto fui assalita dal panico, se mi fossi avvicinata alla mia amica probabilmente sarei stata il prossimo bersaglio delle loro morbose attenzioni.Ma io ero così brava a diventare invisibile, quindi perché non farlo anche adesso? Ombretta avrebbe capito.Quando sbucò da dietro il tronco , girai la faccia e feci finta di non vederla. Immaginai il suo viso, il sorriso appena accennato nella mia direzione che svaniva , soppiantato da un espressione delusa e sconfortata . Mi morsi il labbro trattenendo le lacrime ed entrai in classe, coi quaderni sottobraccio, seguita da una fiumana di bambini ancora allegri per l' estate appena trascorsa. Ombretta fu l'ultima a mettere piede nell' aula. Avevo scelto apposta un banco singolo, in modo che nessuno potesse sedersi affianco a me , ma lei parve non notarlo. Io però notai la ragione delle spinose attenzioni che le compagne di classe le avevano generosamente elargito . Nonostante si fosse pettinata e lavata la faccia per l' occasione, cosa rara per lei che era perennemente incrostata di alghe e salsedine , indossava un paio di scarpe decisamente fuori misura, e una gonna che doveva essere di sua madre , e che lei aveva assicurato alla ben' e meglio in vita legandola con una sciarpa.Ora come ora mi fa pensare a una bambina gitana , e mi fa sorridere, ma in quel momento provai solo disgusto.Il moto di rabbia tornò alla carica impetuoso , perché Ombretta , noncurante dei risolini e delle occhiatacce, sorrideva a tutti e cercava di fare amicizia , e quando mi passò a fianco misi apposta la punta del piede fuori dal banco per farle lo sgambetto , il tanto che serviva per tirarle lo strascico della lunga sottana , facendo ruzzolare la mia amica gambe all' aria . Nessuno vide che ero stata io , e io per prima non lo diedi a vedere . Anzi ,mi alzai dalla sedia, mi finsi addolorata e aiutai la mia amica a risollevarsi, mentre intorno a noi tutti ridevano in maniera sguaiata.Ombretta tratteneva a stento le lacrime, e mi guardò implorante, come se io fossi in possesso di un interruttore capace di spegnere tutto e riportare i nostri corpi sulla spiaggia , noi due sole a cercare conchiglie. Ma la sua insicurezza durò solo un istante . La bambina si staccò dalla mia presa, accantonò la tristezza , ingoiò le lacrime e si mise a ridere di gusto anche lei, mimando più di una volta la sua stessa goffaggine , fino a che la maestra entrò in classe e intimò a tutti il silenzio:< Tutti a posto , altrimenti vi metto una nota sul registro! e lei signorina , vada a sedersi e smetta di fare il pagliaccio!>. Ombretta fece finta di stupirsi delle parole della maestra , scatenando un'altra ondata di ilarità generale e andò a sedersi al suo banco a capo chino e con un espressione di falso dispiacere sul volto.Mentre prendeva posto girò impercettibilmente il viso verso di me , e mi fece l'occhiolino . Quello fu solo il primo di una serie di dispetti a discapito della mia migliore amica, la persona che ho amato di più al mondo e colei che ho fatto soffrire di più durante tutto l arco della mia vita. E il suo perdono è ciò che di più doloroso custodisco nel cuore. La nostra scuola altro non era che un capannone quadrato che tempo addietro era servito da mercato del pesce, circondato da un cortiletto spoglio, dove sopravvivevano alcuni albero avvizziti che in primavera offrivano ben poco riparo dalla calura incombente . Le aule erano stanze dai soffitti alti ma poco illuminate , dato che i finestroni erano troppo in alto e fornivano un esiguo ricircolo dell' aria.Da quando il vecchio edificio scolastico era stato distrutto dall' incendio di dieci anni prima, nessuno si era preso la riga di ricostruirlo, e quella che doveva essere una sistemazione provvisoria era diventata definitiva a tutti gli effetti. A riprova di ciò affianco al casermone avevano costruito alcune stanze da adibire a segreteria scolastica , che si addossavano alle pareti grigie del capannone tanto da dare l impressione che potessero esservi inglobate da un momento all' altro . Allo stesso modo era stato costruito il paese.Una distesa di casupole costruite una accanto all' altra , quasi a volersi sostenere a vicenda , davano l'impressione di essere tessere di un gigantesco e vecchio domino impolverato .Se una sola avesse ceduto , anche le altre sarebbero crollate in successione.E invece stavano lì, inghiottite da un paesaggio aspro e selvaggio, il mare ai piedi e le montagne a picco che svettavano sopra i tetti . Grottafalciata era stata fondata da un gruppo di pescatori che, credendo di aver trovato l'eden dopo aver avuto una serie di battute di pesca fortunate al largo di quella costa, e approfittando del fatto che l' insenatura naturale formatasi in seguito a mille tempeste offriva un porto sicuro per le loro barche , avevano avuto la brillante idea di trasferirsi in quel lembo di terra dimenticato da Dio , e vi avevano fondato un paesino .Inizialmente la buona sorte e il tempo clemente di quei primi anni avevano benedetto quella scelta e altre famiglie di pescatori avevano pensato di andarci a vivere travolti da un insolito entusiasmo e dalla promessa allettante di un luogo incontaminato .In seguito però quello stesso entusiasmo era scemato , vuoi per il fatto che , se la via del mare era sicuramente più praticabile, la strada che congiungeva il paese al centro abitato più vicino era lunga e impervia, e questo aveva ridotto al minimo i contatti verso l'esterno. E quando anche il pesce aveva cominciato a frequentare meno quella costa , i pescherecci avevano cominciato a spingersi più a largo, e alcuni non erano tornati . Ormai però la gente si era disabituata a vivere immersa nella civiltà , e nessuno si sentiva più in grado di tagliare il cordone ombelicale che lo legava strettamente a quel mare e a quelle rocce, per mettere radici in un altro posto e ripartire da zero . Ragion per cui Grottafalciata aveva continuato a sopravvivere, e i bambini avevano continuato a nascere.Non che mancasse qualcosa , s'intende. Oltre a scuola e municipio, c' era il panificio, la falegnameria, la rimessa delle barche , la farmacia, per quanto sfornita , un medico che veniva due volte al mese, un supermercato, e pure l'ufficio postale . Le merci, manco a dirlo, arrivavano via mare a ogni cambio di stagione , e le casalinghe facevano la fila sul molo per seguire le operazioni di scarico e controllare quali nuove mercanzie avrebbero fatto bella mostra di sé sugli scaffali .Insomma, il paese godeva di una certa indipendenza dall'esterno. Le vere difficoltà le incontrava chi voleva continuare a studiare dopo aver conseguito la terza media: bisognava viaggiare fino al primo centro abitato più vicino, e questo era possibile soltanto per chi era automunito ,anche se in effetti non erano stati tanti i giovani a manifestare il bisogno di approfondire la loro cultura. La maggior parte, raggiunta l'età per andare a mare, si imbarcava nei pescherecci di famiglia, e lì passava gran parte della vita , andando di porto in porto per cercare di vendere ciò che aveva faticosamente pescato . Poi c'erano quelli che volevano di più .Quelli che si sentivano stretti tra il mare e la montagna , e soffrivano di una claustrofobia che li portava al di là della cresta del monte Falciato , alla ricerca di una vita che non fosse solo mare e miseria (intesa come miseria culturale, di esperienze , e non solo economica). Giacomo Bondi era stato uno di quei ragazzi che avevano osato pensare a una vita diversa da quella per la quale erano nati e cresciuti. Ragion per cui , una volta diventato "grande" aveva detto ai genitori che la vita in mare non faceva per lui, aveva fatto un fagotto con le poche cose che possedeva , ed era partito alla volta della città. Al padre era preso un colpo, ed era morto di lì a pochi mesi.Neppure questo lutto però aveva spinto il giovane a tornare definitivamente a casa e , dopo una breve visita per aiutare la madre ad organizzare il funerale, Il ragazzo era ripartito . In città Giacomo si era dovuto adattare a vivere alla giornata , e con grande fatica aveva trovato una sua dimensione in quel groviglio di palazzi, strade e vita. E ce l'avrebbe anche fatta se non avesse incontrato lei.L' aveva stregato fin dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lui :Ornella era bellissima , due grandi occhi chiari e i capelli color del sole.Per lui, abituato alle donne tutte uguali di Grottafalciata, era stata una visione celestiale, talmente celestiale che l'aveva messa incinta alla velocità della luce. A quel punto era dovuto tornare in paese con la coda tra le gambe , dato che la ragazza apparteneva a una famiglia rispettabile e solo il matrimonio avrebbe potuto lavare l'onta di una figlia disonorata( e di sicuro non poteva mantenere moglie e figlia abitando in un seminterrato e con lavoreti saltuari) .Fu così che Giacomo tornò da sua madre a testa bassa, s'insediò nella casa paterna e accettò di andare a mare con uno zio . Dal canto suo Ornella subì controvoglia quella sistemazione, credendo alle parole del marito che la definiva provvisoria, almeno fino a quando non avessero messo da parte un po’ di soldi per ricominciare una nuova vita in città. In quello stato di frustrazione e tristezza ero arrivata io e via via che nascevano gli altri miei fratelli il sogno di tornare alla vita di un tempo si allontanava sempre più. Dopo la mia nascita a dire il vero mia madre aveva manifestato l'intenzione di tornare a casa dei suoi genitori, ma questi ultimi erano stati così felici di vederla sistemata lontano che non avevano intenzione di attirare altri guai e altri pettegolezzi riprendendo quella figlia scapestrata con loro, e gliel' avevano scritto per lettera, mettendo nero su bianco le parole che ancora bruciavano nel petto della ragazza, nonostante fossero passati anni:< Mia cara , speriamo che questa lettera ti trovi in salute e felice.Tuo padre e tua madre ti amano, ma non hanno alcuna intenzione di acconsentire al capriccio dettato unicamente dalla tua cocciutaggine.Il ruolo di ogni donna è quello di stare accanto al marito , e non saremo di certo noi a violare questa legge sacra.Per questo motivo non puoi tornare a stare con noi. A presto.> In questo modo si infrangevano tutte le speranze della povera Ornella , alla quale non restava altro da fare che adattarsi a fare la moglie di un marito - fantasma e sfornare figli come tutte le altre donne di Grottafalciata.Mi è capitato spesso di pensare a mia madre e mio padre, giovani e felici in una città dalle molteplici opportunità. Mia madre avrebbe dovuto diplomarsi nel giro di un anno se non fossi arrivata io e li avessi colti di sorpresa.Erano felici, ed innamorati. Il paese li ha cambiati, abbruttiti, ha trasformato mio padre in orco e mia madre in una casalinga depressa senza arte né parte. Era questo ciò che desideravano? Avevo undici anni, e stavo cercando un foglio in un cassetto , quando avevo trovato le lettere.Quelle che mia madre aveva scritto ai suoi genitori , che non ho mai conosciuto, restituite al mittente , chiuse, insieme alle risposte lapidarie dei miei nonni . Pur sapendo di commettere un peccato, le aprii a una a una e le lessi. Parlavano di me , di noi , di sentimenti feriti , tradimenti e sogni infranti. Della paura di essere abbandonata.Di un castello eretto sulle menzogne , sui silenzi, sulle cose taciute ma mai dimenticate . Di un calderone di dolore che sobbolliva in attesa di straripare , e chie fino ad allora lei era stata brava a tenere a bada .Da quel giorno mi convinsi di essere di troppo , di essere sempre stata un peso , e che forse in fondo sarebbe stato meglio se non fossi mai nata .Ma non ne parlai mai a mia madre , forse per paura di scoprire che le mie convinzioni avevano realmente un fondo di verità .Sapevo che se altri fossero venuti a conoscenza del suo dolore più intimo, il delicato equilibrio che aveva costruito giorno dopo giorno si sarebbe definitivamente infranto come le onde sulla scogliera in riva al mare . Allo stesso tempo però non potevo tenermi tutto dentro .Ombretta era sempre al mio fianco, raccolse i pezzi della mia anima ferita e asciugò le mie lacrime.Lei trovava sempre qualcosa per cui valesse la pena sorridere , e anche quel giorno appena mi vide riuscì a capire il mio stato già prima che le aprissi il mio cuore . Vicino a lei , sulla spiaggia , mi sentivo al sicuro .Era sera , ma sapevo dove l' avrei trovata. Era come sempre a cercare conchiglie , in riva al mare . Si rifugiava lì quando sua madre era in compagnia di qualcuno o era solo particolarmente depressa , e anche quel giorno non aveva fatto eccezione. Anche se la serata era calda indossava le maniche lunghe , per coprire i lividi che le aveva lasciato addosso l ennesimo patrigno ubriaco ,eppure appena mi vide mi sorrise.In quel momento andai fuori di testa.Possibile che con tutti i problemi che aveva , Ombretta trovasse ancora la forza di sorridere e di ascoltare i miei deliri?? Glielo dissi , e sputai veleno su di lei, ma non si scompose più di tanto: era abituata ai miei eccessi di rabbia, eredità del carattere di mio padre . Quando mi fui sfogata mi abbracciò , e mi spiegò che noi non avevamo colpa, non avevamo scelto noi di nascere , e non avremmo mai potuto scegliere di morire per lasciare i nostri genitori liberi di sognare ancora.Ombretta aveva ragione , lo so .Ma non si può vivere una vita di menzogne. prima o poi il castello di carte costruito dagli adulti era destinato a crollare.Quando successe il fattaccio eravamo a scuola . Ombretta da qualche giorno era scostante , assente, come se il suo sesto senso l' avesse avvertita del pericolo imminente . Al suono della campanella prese le sue poche cose e le ficcò nello zaino . La notizia però ci raggiunse ancor prima di varcare l'uscita. Giacomo Bondi, mio padre, aveva ucciso a coltellate Angela Manarti, poi si era tolto la vita gettandosi dalla scogliera. Sulle prime non capii.La notizia mi lasciò basita e, in qualche modo, quasi sollevata .Poi vidi il volto di Ombretta tingersi di terrore.Mi resi conto solo allora che in tutti quegli anni non avevo mai saputo il nome di sua madre . Mentre un poliziotto arrivato fresco fresco dalla città per l' occasione tentava di farci restare a scuola , Ombretta sgusciò fuori e si dileguò tra le vie del paese.Nessuno le andò dietro.Rimasi sola , mentre mia madre arrivava di corsa e mi prendeva tra le sue braccia come non aveva mai fatto in tutti quegli anni , e mi raccontava il resto della storia. Prima di partire Giacomo e Angela erano stati fidanzati .Quando lui era partito le aveva promesso che una volta che avesse fatto fortuna sarebbe tornato a prenderla . Poi però si era innamorato perdutamente di mia madre . Il resto del racconto lo conoscevo. Quello che non sapevo però era Angela aveva rivisto mio padre durante il funerale di mio nonno, e nel tentativo di consolarlo era rimasta incinta. Pochi mesi dopo Giacomo aveva sposato mia madre, ma segretamente aveva continuato a vedere Angela che lo ricattava con la storia della bambina , e vedeva altri uomini col solo intento di far ingelosire l'amante . Mia madre l'aveva sempre saputo ma per amor nostro o forse per paura che mio padre messo alle strette potesse scegliere lei ,non aveva mai fatto niente per cambiare le cose. Quella mattina , appena rientrato dal mare, Giacomo era andato a casa della donna, e l'aveva trovata in compagnia di un altro uomo.Accecato dal bere che ormai era diventato il suo compagno abituale fin dalle prime luci dell'alba , e dalla gelosia , mio padre aveva riempito di botte il malcapitato, e ucciso Angela con trentacinque coltellate .Quando mia madre terminò il suo racconto mi sentivo come in preda al mal di mare. Feci per andare in bagno, ma riuscì a scappare e andai alla disperata ricerca di Ombretta . Dovevo leggerlo nei suoi occhi, scoprire se lei era al corrente di tutta la storia . La trovai al solito posto.Come sempre mi sorrise, e io in quel sorriso lessi tutto ciò che mi aveva tenuto nascosto per tutti quegli anni .Eravamo sorelle .E lei l'aveva sempre saputo.La madre gliel'aveva rinfacciato ogni giorno della sua giovane vita , era stata la figlia non voluta , non esisteva nessun padre morto in mare . Lei avrebbe potuto odiarmi per questo, per aver preso il suo posto nella vita di mio padre , ma non l' aveva fatto. Anzi, mi aveva donato il suo amore più puro e incondizionato .A quel punto la rabbia che fino ad allora avevo serrato in petto venne fuori come un fiume in piena e mi accecò la vista. Cominciai a spingere mia sorella senza parlare, senza che lei opponesse resistenza , le lacrime che ci solcavano il viso a fiotti, mentre il mare si alzava in burrasca e il vento cominciava a soffiare più forte . La spinsi fin dentro l' acqua , finchè ci arrivò alle ginocchia. La spinsi ancora , ma lei non sapeva nuotare . Mentre un onda la travolgeva la sentì mentre mi urlava : ti perdono .Ombretta morì tre volte quel giorno, e tre volte riuscirono a riportarla in vita . Quanto a me ,fui accusata di tentato omicidio ma ero minorenne e venni presa in custodia dai servizi sociali, mentre mia madre e i miei fratelli si trasferivano in un'altra città. Mi avevano abbandonato tutti .Nel corso degli anni Ombretta tentò di rintracciarmi tante volte, mi scrisse tante lettere a cui io non risposi mai. Mi chiamava sorella, diceva che ero l unica persona al mondo ad avere importanza , per lei. Io però avevo già deciso , le avevo già fatto troppo male , l' unica persona al mondo che aveva tutti i motivi più disparati per odiarmi e che invece mi aveva amato profondamente come nessun altra . Avevo tentato di ucciderla, quando invece avrei voluto morire io stessa.E lei questo l' aveva capito, e mi aveva perdonata . L'amore e la morte si somigliano sotto vari aspetti, possono consumarti nel giro di una notte, o avvelenarti piano nel corso di un intera vita. Mio padre e Angela erano morti perché avevano amato troppo una vita che non avrebbero mai vissuto , mia sorella avrebbe potuto sopravvivere al mio amore solo se fossi rimasta lontano da lei . Gli aquiloni volano alti solo se distanti tra loro.Le loro traiettorie non si devono mai incontrare, perché uno dei due potrebbe soccombere.Così vivono , trascinati sulle nuvole dallo stesso vento che soffia sulle loro ali colorate , in una danza parallela , liberi . Ora sei libera amica mia.E anche io.

lunedì 11 agosto 2014

Nuvole bianche e un campo da calcio

Aveva una naturale predilezione per qualsiasi cosa  si potesse calciare, che fosse una pietra, una bottiglietta, una lattina trovata per strada, e l'aveva dal giorno in cui aveva mosso i primi passi . Passione bizzarra, a quei tempi , per una femmina, coltivata tra un saltello e l'altro e  cresciuta insieme a lei . Quando tornava a casa sua madre si arrabbiava sempre , per quelle ginocchia sbucciate , le  calzamaglie rotte , e le scarpe di vernice della domenica che avevano presto perso la naturale lucidità, e ora apparivano vecchie e lerce, pure se le aveva indossate non più di quattro o cinque volte .Suo padre poi non si era mai rassegnato al fatto di non aver avuto eredi maschi , ma non per questo accettava che sua figlia, la sua unica bambina, con quel corpicino esile e grazioso, i fiocchi sui capelli e le gonnelle di chiffon  , avesse preso una decisione così "innaturale".
<Voglio giocare a calcio >. Erano tutti seduti attorno al tavolo, e si accingevano a mettere in bocca il primo boccone , quando Lia aveva pronunciato quelle parole. Alla nonna era andato tutto  di traverso , e così il babbo era dovuto correre a farle la manovra di disostruzione, mentre sua  madre si portava le mani sugli occhi e mormorava:<Eitta appu fattu po tenni una figgia angasi...>.L'unico che non aveva mai ostacolato i sogni di sua nipote era il nonno. Anche se la scelta di Lia di rivelare i suoi propositi  proprio all'ora di pranzo non gli era parsa una buona idea:<Avresti dovuto cercare un momento più consono, figgia mì >,le aveva detto mentre si sbucciava una mela, seduto vicino al camino in sa cadiredda bascia , mentre la mamma era corsa a piangere in camera sua , e il babbo, dopo aver fatto stendere la nonna , che già imprecava dicendo che qualcuno aveva fatto sicuramente s'uglu malu sulla nipote , chiamava dottor Foddis per sapere se ci fosse un rimedio omeopatico per quel tipo di spaventi . Il nonno era un omone in confronto a lei, con quei suoi occhi azzurro cielo che si perdevano dietro agli spessi occhiali. I suoi capelli bianchi , radi,  come nuvole che si dissolvono coi raggi del sole, incorniciavano quel viso buono, la fronte alta, le orecchie grandi. <Così ci sente meglio>, pensava la bambina quando gli sussurrava quanto gli voleva bene, e quelle mani forti, che la sorreggevano tutte le volte che cadeva, che le asciugavano le lacrime quando tornava a casa con un bernoccolo per aver fatto a gara coi compagni a chi si arrampicava più in alto sull'albero di fichi che tendeva i suoi rami di fronte al cortile della scuola, quelle mani l' avvolgevano in un abbraccio, mentre il nonno la issava sulle sue ginocchia e le cantava Duru duru tzia Mariola , come faceva tutti i giorni dopo pranzo  da quando era ancora in fasce.E Lia , che naturalmente  non era più così piccina per quel tipo di canzonette, lo prendeva in giro e gli ricordava che ormai era cresciuta, che era "grande " per quel genere di giochi, ma continuava a rimanergli seduta in grembo, assaporando l'odore dei suoi vestiti ,del tabacco della sua pipa , del dopobarba che il vecchio distribuiva generosamente ogni mattina  sul viso appena sbarbato. Odore di sicurezza, tranquillità , il porto riparato  dove rifugiarsi in caso di tempesta . Il nonno era stata la persona più importante di tutta la sua vita , fino a quel momento . E probabilmente sarebbe stato così anche in seguito , anche quando non l' avrebbe più avuto al suo fianco .Ma in quel momento Lia non ci pensava, e viveva la spensieratezza della sua età, e lottava contro  quel fastidioso pensiero che spuntava nel suo cervellino di bambina ogni volta che pensava al pallone, insieme a un prurito ai piedi che la rendeva quasi iperattiva , al punto da dover lasciare a metà qualsiasi compito stesse  svolgendo e mettersi a correre , in preda alla frenesia . E a dire il vero il pallone Lia ce l ' aveva .Era stato proprio il suo amato nonno a prendersi la briga di procurargliene uno, di cuoio vero , forse un po' troppo pesante per le sue esili gambette, ma a lei non importava . I genitori naturalmente non erano stati messi al corrente di questo regalo desiderato  quanto inaspettato, dato che probabilmente avrebbero liquidato la faccenda nella migliore delle ipotesi con un < Possiamo ancora riportarlo in negozio e cambiare merce>, mentre nella peggiore si sarebbero serviti di un bel coltello affilato , seguito da un sonoro  ceffone su entrambe le guance, e una caterva di insulti in direzione di quel nonno scriteriato, alla faccia di chi dice che i sogni dei bambini vanno coltivati e non soppressi.
Ora il nonno non c è più , e Lia è diventata grande. E' la sua prima partita .Non ha mai abbandonato il suo sogno.L' ha promesso al vecchio, un attimo prima che morisse, prima che quel male oscuro che l' aveva costretto sulla sedia a rotelle se lo portasse via, inevitabilmente . Ha messo il  pallone di cuoio dentro la bara .Voleva che  avesse con sé la cosa a lei più cara al mondo .Dopo di lui, naturalmente.Tante immagini si fanno strada nella sua testa , ma il fischio d'inizio la riporta nel presente e  le fa battere forte il cuore . Il suo pensiero corre con lei , mentre dribbla le avversarie , cade , si rialza , mette il pallone sul dischetto... e tira. Il pallone sbatte su un palo ,prende una strana traiettoria e magicamente   rimbalza in rete , mentre il portiere dell'altra squadra si alza in piedi e impreca, sugli spalti gli spettatori  esultano come in preda a un'euforia collettiva e le sue compagne  le si fanno intorno per complimentarsi con lei. Lia però non si muove, non sente la folla che canta , non risponde alle compagne  che la chiamano ,ma  sorride e alza gli occhi al cielo, mentre una nuvola bianca svanisce tra i raggi del sole  <Ecco nonno,ce l' ho fatta, guarda, questo goal è per te>.

Dedicato a mio nonno , al quale mi sono ispirata per descrivere il vecchio buono ,protagonista della mia storia .Io non ho mai voluto fare la calciatrice , ma quando da piccola ero tra le sue braccia  ho sempre sentito che avrei potuto anche volare, se solo l'avessi desiderato . Perchè lui era il mio gigante buono .E nonostante l' abbia avuto vicino a  me solo per i primi sei  anni della mia vita , ancora mi manca.
 

venerdì 8 agosto 2014

Come ovatta

La guancia faceva ancora male. Sentivo il calore che irradiava la mia pelle , il segno ancora impresso dalla mano che mi aveva colpita. Ripetutamente. Su tutto il corpo. E lui accanto a me , nel letto , che dormiva , ebbro di quella violenza che mi aveva donato con gratuito slancio proprio un'ora prima. Io giacevo al suo fianco, il freddo che mi consumava le membra nonostante le coperte che avevo addosso, e il cuore che andava a intermittenza, a seconda che il respiro di lui fosse silenzioso, o agitato.Tra le mani stringevo la mia salvezza, un flacone blu col tappo bianco , me l'aveva dato il dottore per curare quelle strane anse che ultimamente non mi davano tregua .Non è colpa sua , diceva , pretendi troppo da lui, gli stai troppo addosso, è normale che reagisca così , se tu lo istighi. Nell'oscurità cupa della camera pensavo. E la mia mente vagava . Ovatta. ecco quello che sentivo intorno a me. Morbida ovatta che mi richiudeva come un bozzolo in una dimensione protetta , lontana da quelle mani, al riparo da quella voce che ancora mi urlava nelle orecchie. Puttana. Chiusi gli occhi , e quando li riaprì lui era andato via . Dove ? Avevo imparato a non chiedere , a non pretendere , a non contraddire .Mi alzai senza fare rumore , andai verso il bagno e nuda mi infilai dentro il box doccia. L'acqua cominciò a scorrere e a bagnare il mio corpo ,a lavare via i miei peccati , le mie colpe. A dar sollievo ai miei lividi . Quali colpe di preciso  non saprei  dirlo, il mio sentirmi perennemente in difetto ormai fa parte di me , pensavo,e forse questo mio stato mentale è il più grande peccato che commetto contro me stessa. Mi avvolsi nell'asciugamano, lentamente , e mi avviai verso la cucina .Lì lo vidi. Non era andato via. Stava di spalle di fronte a me , avvolto in un fascio di luce lunare che penetrava di nascosto dalla finestra , e faceva apparire la sua ombra più possente di quello che già fosse. Lui però non mi notò minimamente  , e rimase  a contemplare la notte , fumando una sigaretta. Ampie volute di fumo impregnavano la stanza di un odore  acre e nauseabondo. L'odore della morte , che mi fece desiderare di trovarmi lontano da quella prigione che avevo scelto consenziente quando avevo detto sì sull'altare. Quel sì per il quale avevo dato via tutta la mia vita, nella vana speranza di inseguire un sogno che infine si era rivelato un incubo. Un incubo segreto, che non si può rivelare, da celare tra quattro mura e sotto spessi strati di correttore .Fu in quel preciso istante, quando presi realmente coscienza di quello che era il mio destino , che sentì il mio corpo farsi etereo, e fluttuare nell' aria. La guancia era ancora tumefatta  , ma non faceva più male, mi sentivo avvolta da un caldo umido , un tepore che mi scendeva tra le gambe e risaliva e si insinuava all'interno del mio corpo fino a scaldare gli anfratti più reconditi della mia carne. Mi allontanai in fretta da quella presenza e da quell' olezzo di morte , e più mi allontanavo da lui, più la paura spariva e faceva posto allo sgomento  , dettato da quella libertà che avevo appena conquistato. Dall'alto , dal punto dove mi trovavo, potevo scorgere tutta la vallata .Un paese piccolo , poche anime racchiuse tra case , cortili e pettegolezzi . Potevo volare fino a raggiungerle a una a una, quei corpi sfatti che dormivano nei loro letti , in attesa che si levasse un nuovo giorno per sputare ancora veleno .Quelle anime frustrate , bisognose di far del male agli altri per non sentire l angoscia che premeva loro in petto . Una sensazione strana mi avvolse, un sentimento che mi stupì e mi fece barcollare .Mi sentivo forte , immensa  di fronte a quella gente così volubile , in quel preciso istante. Nel sonno siamo tutti così fragili, così indifesi .Pensai a quello che avrei potuto far loro , mi spinsi oltre fino a immaginare i particolari più truculenti. Riscoprì in me una vena sadica che fino ad allora non avevo mai contemplato ,  occupata com 'ero  a fare la vittima e piangermi addosso. Questa nuova sensazione mi colmava e spaventava allo stesso tempo. Mi destabilizzava. Vacillai ancora, fino a perdere l'equilibrio,e precipitai in mare. Ma non avevo paura né di affogare, né di morire assiderata. Quel fluido denso mi aveva accolta , preservata . Nuotavo in un acqua scura , ma non avevo timore perché sapevo che lì nessuno avrebbe potuto trovarmi .Credetti di essere felice. Non potevo essere più felice. Nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi in fondo al mare .Ero salva .
Uno strattone , poi un altro, e un altro ancora. Mi sento il respiro mancare. Affogo. Mi inabisso, sotto un peso che mi trascina vorticosamente  verso il basso. Affanno. Apro gli occhi. Lui mi ha trovata .Sono stesa sul letto, raggomitolata in posizione fetale. Vedo la sua bocca che si storce in smorfie e sbraita, ma non sento quello che mi sta urlando. Non sento che mi insulta, brutta cagna, ti sei pisciata addosso ,non capisco quella sensazione umida che adesso mi fa sentire bagnata, fredda e appiccicosa . Mi fanno male gli occhi, la luce mi ferisce .Voglio tornare a immergermi in quel mare denso . Come ha fatto lui a trovarmi?mi chiedo. Mi sento mancare le forze, tutto ridiventa buio, l oblio torna ad avvolgermi. Dalla mia mano cade un flacone .Vuoto .Lui lo raccoglie, si rende conto. Il terrore lo assale, ecco, vedi cosa si prova ad avere paura?vorrei dirgli. Ma sono già precipitata nuovamente nell 'oblio. Lui ricomincia a scuotermi, si strappa i capelli, urla cosa ho fatto ,cosa ho fatto, ma ormai non posso più vedere né sentire . Sono tornata nel limbo , gravito in un liquido uterino , protetta , libera . Una lacrima mi scorre giù, per quella guancia che non proverà più dolore. Finalmente felice, muoio di gioia.

giovedì 15 maggio 2014

I sogni di gloria di Caronte

 Ade è nel suo ufficio, e come ogni giorno è intento a esaminare i dati delle nuove anime che quella stessa mattina hanno varcato l'Acheronte . Così assorto, non si rende conto che qualcuno bussa alla porta.
<Mi scusi eccellenza, è permesso?> .
Davanti alla scrivania si para Caronte ,  cappello in mano.
Ade appoggia i documenti  , si raddrizza sul suo trono , poggia i gomiti sul ripiano della scrivania e comincia a squadrare il traghettatore , che ha un sussulto e per poco non se la fa addosso dalla paura.
<Dimmi Carò... posso fare qualcosa per te ?? qualche problema? chi si è buttato nel fiume stavolta? Ah non dirmelo, è stato quel briccone di Cerbero? Spero sia qualcosa di molto grave , perché sai quanto odio essere disturbato quando sto facendo i conti  delle anime...>
Caronte abbassa la testa , poi senza mai guardare il padrone negli occhi, e prendendo il coraggio a quattro mani , comincia a formulare la sua richiesta.
< Ehm...sua Eccellenza illustrissima...>
<Procedi Carò, che c'ho premura!> lo interrompe Ade , mentre si guarda distrattamente  gli artigli della mano destra limati di fresco.
<Mi scusi ...sono qui per chiedere... u-un au-mento d-di sti-stipendio ... > E mentre lo dice ,  sicuro che la reazione del padrone sarà  violenta, Caronte si porta le mani davanti alla faccia e si rannicchia in posizione fetale. Ma non arriva niente. Non una scarica elettrica, e neppure una fiammata , e nemmeno un inizio di terremoto. Niente di niente. Quindi il traghettatore alza gli occhi , e cerca di visualizzare il padrone davanti a lui , dallo spazio tra le braccia ossute che ha messo in posizione di difesa, aspettando un colpo che non arriva.
Con sua grande sorpresa, Ade sta sorridendo. Se lo poteste vedere, cari lettori, converreste con me che  quello che il dio della Morte ha stampato in faccia  assomiglia più a un ghigno malefico che a un sorriso, ma al povero Caronte, non essendo abituato ai sorrisi , non resta che interpretare quella smorfia diabolica in un gesto amichevole. Si decide quindi ad abbassare le braccia, si rialza in piedi e anche lui prova a contrarre il volto in un sorriso, anche se non gli riesce benissimo e assomiglia più alla faccia dipinta da quel tale Munch , di cui gli ha tanto parlato un tizio che ha traghettato proprio l' altro giorno.
<Caronte caro, com' è che vieni a chiedermi un aumento di stipendio??>chiede Ade con voce sorprendentemente suadente.<Forse ti senti trascurato, non ti basta quello che ti do?> e continua < Ti senti così insoddisfatto? Ti ho sempre trattato come un figlio(e qui la voce si fa quasi pietosa , e gli occhi infidi gli si riempiono di lacrime )e tu così mi ripaghi....chiedendomi un AUMENTO? Sono proprio deluso....>
<Ma Karl ....> interviene Caronte che, avendo scorto un minimo di debolezza nel padrone, cerca di approfittare di quel momento per sviolinare le ragioni della sua richiesta.
< Quel Marx!!> , tuona allora Ade , e la terra comincia a tremare mentre il Dio  si alza sul trono e si gonfia fino a riempire con la sua altezza tutto l androne , e Caronte cerca di rifugiarsi in una nicchia. < Lo sapevo che quello là ci avrebbe creato solo problemi , con le sue teorie strampalate sull'emancipazione del proletariato, lo sapevo ! E tu(e indica con l'indice uncinato il traghettatore che ormai è sicuro che la sua sorte sia segnata , e maledice il giorno in cui ha parlato con quel tale sulla barca) , Tu , razza di bastardo, mangiapane a tradimento , scansafatiche! Mi tradisci così, per un umano !!!>
 Poi si ridimensiona , tira un sospiro , e mentre il fumo delle sue narici invade la stanza, riacquista un tono pacato.
<Mio caro Caronte , credo che il nostro rapporto di lavoro finisca qui.C' è Cerbero che, sono sicuro,  muore dalla voglia di prendere il tuo posto sull'Acheronte, e mi costa molto meno di te, dato che si accontenta di un osso per ogni testa .Se decidi di licenziarti sei  libero, ritieniti esentato dai tuoi doveri fin da ora .>
Caronte esce fuori dalla nicchia dove si era nascosto , con uno sguardo tra l'allucinato e lo stupito , e cerca di parlare ma non riesce ad articolare le parole. <Gra-grazie su-ua E-minenza> e fa per uscire dall'antro , quando Ade lo blocca:< E dimmi, ora che farai , hai già un posto dove andare, nel mondo dei vivi?> .
Caronte si gira e risponde , con fare sottomesso:<Ehm, so che cercano personale su un nuovissimo transatlantico che partirà fra qualche mese per l'America...se sua Eccellenza potesse... ehm... farmi una lettera di referenze...> . Ade , di nuovo con un ghigno malefico scolpito in faccia, esclama:< Ma certamente amico mio, certamente !>.
Mentre Caronte risale l'Acheronte per l'ultima volta , stringendo il foglio firmato dallo stesso Ade, ha un moto d'orgoglio , e quando arriva sull altra sponda  aspetta che Cerbero, che ha preso il suo posto sulla barca, si allontani giusto il tanto perché possa sentire i suoi insulti , ma non possa più provare ad azzannarlo:< Cagnaccio dei miei stivali, babbeo, stupido idiota , vai vai dal padroncino che ti aspetta con l'osso!!>
Cerbero comincia a ringhiare, ma ormai è troppo lontano e non gli resta che terminare il suo lavoro. Intanto Caronte risale la ripida scala che lo divide dal regno dei vivi e pregusta già la nuova vita che l'attende al di là della porta dell Inferno.

Qualche tempo dopo , Cerbero sta traghettando  millecinquecento anime vittime di naufragio , quando nota un viso conosciuto, un vecchietto che cerca di mimetizzarsi fra la folla. E' proprio lui , Caronte ! Il cagnaccio aspetta che tutte le anime siano scese dalla barca, poi acchiappa per i capelli l'ex traghettatore che intanto urla e si dimena ,e lo trascina fino al trono di Ade. Costui non sembra affatto stupito di rivedere il suo "amico" , e anzi gli riserva un accoglienza a dir poco calorosa:<Carissimo, qual buon vento ti porta? ah già, ho sentito del Titanic...immane tragedia.. per loro, certo  , non per noi che  abbiamo quadruplicato gli introiti nel giro di due giorni>. E si frega le mani soddisfatto.
<Sua Eccellenza Illustrissima> risponde Caronte buttandosi piangendo ai piedi del Dio <Perdonate la mia avventatezza!> . <Su su, non fare così > risponde Ade< c è sempre un posto qui all 'Inferno per lavoratori come te... Cerbero mi ha appena fatto sapere che non ha più voglia di traghettare anime, quindi riavrai il tuo vecchio lavoro, sei contento ?>
Caronte si illumina e sta per baciare le mani a quel dio così magnanimo, quando Ade aggiunge:<Naturalmente quel che è giusto è giusto,e verrai retribuito con la stessa paga che ha percepito Cerbero durante la tua assenza>.
Caronte rimane di ghiaccio, e scappa via disperato, rincorso da Cerbero che non ha dimenticato gli insulti del giorno in cui il traghettatore aveva lasciato l Inferno per andare nel mondo dei vivi, mentre le risate diaboliche di Ade rimbombano per tutto l'antro.
La morale di questa storia, cari lettori , è presto detta: mai pretendere più di quel che hai , potresti ritrovarti con un mucchio d'ossa tra le mani(soprattutto quando hai a che fare con Ade!)

venerdì 9 maggio 2014

Feminas de zinepru

            Feminas de zinepru 
 
 
 
 
Prefazione 
 
 
Certe storie si scrivono da sole. Basta aprire i cancelli del cuore e dei ricordi e stare a guardare. Le parole a quel punto confluiranno da sole sul foglio bianco come un fiume in piena. 
Questo è ciò che è successo a me con “Feminas de ginepru”, un'esperienza quasi mistica, come se io stessa avessi, tempo addietro, provato le stesse emozioni, compiuto le stesse esperienze delle protagoniste. Il racconto si svolge attorno alla vita e alle vicende di una famiglia composta principalmente da donne. Gli uomini stanno sullo sfondo, immersi in una realtà quasi parallela a quella di queste ultime, quasi fossero solo comparse in un mondo fatto di matriarcato, superstizione, tradizione, “cose di donne”, insomma. 
Le vicissitudini di tzia Raimonda e le sue nipoti fanno parte della quotidianità di una comunità ogliastrina, in un mondo tanto diverso da quello nel quale viviamo adesso, dove tutti i giorni si aveva a che fare con difficoltà legate alla malattia oppure a catastrofi naturali e alla morte, eventi questi perlopiù imprevedibili e fuori dalla loro comprensione e per i quali non vi erano rimedi efficaci, o alle fatiche del duro lavoro. E tutto questo veniva affrontato con la sola forza fisica e mentale e un misto tra fede e magia. 
In questo scenario poco rassicurante però, c'era una forza indistruttibile, che proveniva dalla solidarietà e dall'altruismo del vicinato, dal fatto che ciascuno si sentisse in dovere di aiutare il proprio prossimo, sia nella disgrazia che nella gioia. Una rete invisibile, ma indistruttibile, che faceva in modo che nessuno si sentisse solo nell’affrontare l'ignoto giornaliero. Un tesoro immenso, che purtroppo non è sopravvissuto fino ai giorni nostri. Al di là di tutto, quelle donne avevano capito che la sopravvivenza era inscindibilmente legata a un sentimento tanto puro quanto semplice: l' amore. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Torthoelie,1937. 
Una nuova alba rischiarava i tetti delle case, mentre tzia Letizia seduta al tavolo da lavoro in legno, sa mesa de linna, stendeva la pasta col mattarello in strati sottili. Le sue dita scorrevano veloci sulla sfoglia mentre cuciva la tipica spiga dei culurgiones. 
Annina s’era destata da poco e , ancora con gli occhi gonfi dal pianto , era andata ad appollaiarsi sullo sgabello vicino alla madre, che la guardava con aria interrogativa: 
Tua sorella ti ha raccontato di nuovo la storia del mostro che rapisce i bambini ca beniri su bobbollotti e ti poniri aintru e su saccu» 
Annina annuì e si sfregò il nasino arricciato con le manine grassocce, mentre nell’altra stanza si udiva la sorella ridacchiare: 
«Mariedda, vieni qui, quante volte te lo devo dire che non devi metter paura a tua sorella. 
Maria però sembrava molto divertita da questa abitudine e rispose: 
«Candu andu a bivi cun popiddu miu dant’ a mancai ad Annedda custus fueddus. quando andrò a vivere con mio marito ad Anna mancheranno queste parole » 
La pancia era appena accennata sotto al grembiule, ma lei sentiva già il suo bimbo che scalciava. Era sicura che sarebbe stato un maschio. E l’avrebbe chiamato Serafino. 
«Beni a m’ aggiurai, indeghinnò mancu po pasca manna accabbu. » vieni ad aiutarmi sennò neppure per Pasqua finisco  
Il matrimonio era stato fissato per la domenica successiva, e nella modesta casa fervevano i preparativi per la festa che avrebbe celebrato l’unione dei due sposi. Ad Annina però non importava molto, e non capiva tutto quel trambusto e quell’entusiasmo. Dal suo punto di vista, da quel giorno in poi avrebbe dovuto dormire da sola, e la cosa non le piaceva affatto, specie dopo che per anni la sorella l’aveva tormentata con storie di mostri e spiriti. Aveva afferrato la sua tazza di latte ed era uscita in cortile coi piedini nudi e si era seduta sulla panca che dava alla strada. Si era avvicinato a lei su figgiu de goppai Baddore, il figlio del compare Salvatore che si chiamava Antoni . Aveva pressappoco la sua età, e praticamente si conoscevano fin dalla nascita. A lui Annina raccontava sempre le storie di paura della sorella, e lui dal canto suo rispondeva che se fosse venuto su bobboi a prenderla, l’avrebbe certamente difesa. Coraggioso per avere solo 5 anni. 
Diceva che l’avrebbe difesa pure da sa mama de Gorropu, un mostro di cui gli avevano parlato is cumpangius de trabballu de su babbu, i compagni di lavoro del padre se ne avesse avuto l’occasione. A quel punto lei cominciava a prenderlo in giro, brullendo, scherzando .E lui si vergognava dell euforia che aveva dimostrato sino a quel momento. 
Quando arrivò tzia Raimonda, i due monelli corsero a nascondersi dietro il recinto delle galline, e continuarono le loro fantastiche discussioni. Se la donna li avesse visti a quell’ora del mattino, scalzi e ancora in camicia da notte, a razzolare per il cortile, li avrebbe di sicuro sgridati. 
Costei era la sorella della madre di tzia Letizia, e per loro era quasi come una nonna. Severa quando serviva, austera, ma pervasa anche di momenti di dolcezza.  
Sull’uscio alzò lo sguardo al cielo e vide che era nuvoloso. Così, prima di entrare, si fece tre volte il segno della croce e diceva: 
«Santa Barbara e santu Giacu,bosatteis is crais de lampu, voi avete le chiavi dei lampi bosatteis is crais de gelu, voi avete le chiavi del cielo non toccheis fillu allenu, non toccate i figli degli altri ne in dommu ne in su sartu, santa Barbara e santu Giacu» 
Poi si fece nuovamente il segno della croce ed entrò in casa, bofonchiando: 
«Figgia , tu il letto non puoi farlo ,lo sai che non puoi entrare se non hai padre e madre viventi» 
Letizia continuava a cucire velocemente, con un abilità straordinaria, come un pianista che accarezzi le note di un pianoforte, per creare una perfetta armonia di suoni. La stessa cosa faceva lei sulla pasta, creando una perfetta armonia di intrecci. Ogni culurgione pareva quasi una bomboniera, tanto era perfetto. 
«Disciu giai , mamà,lo so già madre, ma fatemi  almeno aiutare mia figlia a vestirsi» 
La donna annuì e, dopo aversi lavato le mani in su lavamanu nella bacinella ed essersi legata un grembiule alla vita, si mise anch’essa a cucire la pasta. 
Mariedda , alla vista della nonna sezia a costau de sa mesa seduta vicino tavolo si era ritirata in camera sua. Non le piaceva sentirsi osservata, né tantomeno giudicata. Aveva 16 anni, e il diritto di sposare chi voleva, dato che oltretutto ne portava in grembo il figlio. Il futuro sposo era un tale Virgilio Foddis, di Baunei, ferali su, ossia della sua stessa età. Si erano conosciuti sulla strada che portava al lavatoio, lui che portava al pascolo le sue pecore, lei che portava i panni a lavare. Era stato amore a prima vista, e sapendo che le famiglie non li avrebbero mai fatti sposare perché troppo giovani, avevano deciso di non dar loro alternativa. Tzia Raimonda non guardava di buon occhio i baunesi, avrebbe preferito che netta sua sua nipote sposasse unu de bidda, uno del suo paese unu tortoliesu comenti a issasa un tortoliese come loro. 
Letizia invece aveva accettato di buon grado quella relazione, perché era risaputo che is de Baunei  fossero piccioccus trabballanti. grandi lavoratori.  
D’altra parte i genitori di Virgilio non avevano preso bene la notizia, e solo dopo molti incontri con la famiglia di Maria si erano convinti che custa coja si poria fai questo matrimonio si poteva fare. 
Tzia Raimonda tra l’altro disprezzava le usanze dei baunesi che festeggiavano gli sposi per ben sette giorni, e aveva storto il naso nel sapere che sa coja si sarebbe celebrata proprio a Baunei, in sa cresia de santu Pedru nella chiesa di san Pietro protettore del paese, mentre lei era una devota di sant Andria sant’Andrea 
«As a biri ca is de monti si piganta sa cosa de is de basciuquelli di montagna prendono le cose di quelli di pianura » 
Nonostante le remore di tziaRaimonda, le donne sarebbero salite in corriera, la Columbus, e le avrebbe ospitate la famiglia del futuro consuocero. 
Quando Annedda l’aveva saputo aveva fatto i salti di gioia: non era mai stata in corriera prima d’allora, e questo viaggio l’ affascinata tantissimo .Le avevano raccontato che a Baunei era vissuta tanto tempo fa un fantomatico personaggio, forse una strega, o forse era una regina, Maria Eltili, che quando il suo paese era stato distrutto e abbandonato, aveva continuato a viverci sino a che un abitante di Baunei non l’aveva invitata nella sua casa e da allora, sedotta da quella genuina ospitalità, aveva donato le sue terre ai Baunesi ed era rimasta a vivere lì per sempre. Dicevano parlasse tante lingue e avesse poteri magici. 
Dopo aver ascoltato questa favola , la bambina aveva fantasticato su come le sarebbe piaciuto incontrare un giorno questa donna, dato che nessuno le aveva saputo dire se fosse morta o in realtà si aggirasse ancora per le vie del paese. 
Mentre tzia Raimonda cuciva i culurgioni e stendeva altra pasta, Letizia cercava di placare il suo animo: 
A biasa un istrobbu portara fortuna , a volte un disguido porta fortuna, dovete stare tranquilla perché vostra nipote sposa un bravo ragazzo-. 
A lei però non interessava l’ opinione della donna. A lei a dire il vero non interessava l’ opinione di nessuno. Era sopravvissuta a un alluvione, al vaiolo e pure alla tanto famigerata Spagnola,e questo le dava il diritto di essere al di sopra delle opinioni altrui.  
Era stata una donna bellissima, alta e slanciata, il petto imponente e il viso regolare, con il naso affilato e gli zigomi alti, incorniciato da una folta chioma di capelli lisci e scuri come l‘ebano, che ora amava raccogliere in un “codinu”, una crocchia alla base della nuca, e coprire con il fazzoletto d’orbace nero, in segno di lutto. Aveva perso il marito nell’alluvione del 1901, e non aveva avuto figli. Perciò si era dedicata anima e corpo ai nipoti e aveva cresciuto Letizia, che era rimasta sola al mondo dopo l‘epidemia di vaiolo, come se fosse una figgia carnali una figlia carnale.  
Quando la donna poi si era sposata, aveva continuato a vivere sola nella casetta andendu a su pont’ e ferru, andando al ponte di ferro ma non mancava mai l’ occasione di andare a trovare Letizia e le sue due figlie. Da quando poi il marito di Letizia era emigrato in Germania le visite si erano fatte più frequenti. 
 
La sua prima figlia si sposava, e lui non sarebbe potuto essere presente. Gavino non sarebbe potuto tornare in tempo, questo diceva il telegramma. Due volte all’ anno mandava sue notizie in una lettera, e il denaro che Tzia Letizia gelosamente conservava per il corredo delle figlie. Di lui Annedda ricordava ben poco, solo certe canzonette “educative” che si era prodigato a insegnarle da piccina, quando andava per campi a pillonai, cacciare uccellini e se la portava appresso.  
Una di queste Anna non riusciva mai a toglierla dalla testa, e si trovava spesso a canticchiarla mentre andava a lavare i panni con sua madre o sua sorella: 
«Si contu su fattu\ de una giovinedda\ est’unu fattu seriu\ de pori arraccontai\ de cosa bianca e troppu belliscedda\ chi dogna dominigu si cambia gonnedda… ». 
Era tornato due anni prima, Gavinu, lo stesso anno in cui Benito Mussolini era venuto in visita al paese, e tzia Raimonda aveva detto , col suo solito fare: 
«Anti fattu prus festa a tui che non a su Duce. » e pronunciando l’ultima parola aveva fatto un gesto come di reverenza col capo. Era innamorata di quel condottiero alto e robusto, che tanto le ricordava il defunto marito. Ogni qualvolta mandavano un suo discorso alla radio, lei alzava il volume e lo ascoltava assorta, pur capendo poco di quello che diceva, essendo abituata perlopiù ad allegai su sardu a parlare in sardo. 
Era una donna piena di saggezza antica, e spesso in vicinato da chistionanta, la domandavano per sapere cos’ era giusto fare e cosa no. Lei dal canto suo amava raccontare le storie passate e diceva che da queste bisognava trarre insegnamento per il presente . 
 
Quella notte i cani avevano abbaiato, ìanta ciaulau, senza sosta e il mattino dopo le campane avevano suonato a morto.  
Rio Foddeddu in quel periodo era placido e corpulento e Annedda amava recarvisi per accompagnare sua sorella o sua madre a lavare i panni. Quel giorno avrebbero lavato le lenzuola di tela e trambicchi che sarebbero poi state utilizzate per vestire il talamo nuziale quello stesso giovedì. Grazie al cielo Maria non sarebbe andata a vivere a Baunei, pensava Letizia mentre si avviavano al lavatoio con i panni. Le aveva ricamate personalmente una ad una come regalo per la figlia, anche se si era dovuta affrettare perché non aveva mai pensato che le sarebbero potute servire così a lestru, velocemente. 
Pure Maria aveva aiutato a dire il vero, essendo ormai diventata una ricamatrice esperta e una brava sarta, come si conveniva a una donna a quell’epoca. Al loro gruppetto si erano unite alcune amiche della ragazza, che adesso precedevano il corteo, in allegasa in chiacchiere: 
«Disceisi e chini s è morta? Sapete chi è morta Tzia Austina Piras, sa mama de sa butteghera, signora Agostina Piras, la madre della negoziante». 
Diceva  Antonietta a voce bassa mentre camminava con fare civettuolo. 
< Davvero? Poverina, era ancora giovane…»  
Risposero le altre in coro. 
«mi hanno raccontato che la figlia è andata a domandare a  Tzia Bonaria , e la signora le ha risposto che quello che aveva la mamma era occhio cattivo, e molto grande » e continuò «anti pregantau s abba e s olluhanno pregato l acqua e l olio  
Mentre camminavano discorrendo, Maria non ascoltava e sbuffava con fare annoiato. A lei quelle chiacchiere non interessavano proprio. 
Il giorno prima Tzia Bonaria le aveva fatto il pendolo sul pancione e le aveva rivelato che avrebbe avuto 3 figli, e la prima sarebbe stata una femmina . La rivelazione oltretutto era avvalorata dal fatto che avesse da qualche tempo acidità di stomaco. Voleva dire che la creatura aveva i capelli lunghi, is pilus longus ca donanta fastidiu a su stogumu, davano fastidio allo stomaco segno indiscutibile del sesso femminile. 
Antonietta continuò: 
«M’anti contau un allega. Mi hanno raccontato una storia La ragazza aveva raccontato alle amiche come era morta zia Agostina, che una notte mentre puliva fichi d india era stata presa dalla processione dei morti, sa juaria , che l aveva portata fino in cimitero. Suo marito sin di furi accattau, se n era accorto e l’aveva fermata prima che attraversasse il cancello. Dopo una settimana però la donna era morta ugualmente. 
A quel punto intervenne Maria, scocciata: 
«Deu discia giai custus foeddus »In pratica aveva sognato la madrina di battesimo della madre , che chiedeva di mandarle un fazzoletto con zia Agostina. Il sogno si era avverato e ora la defunta avrebbe portato nell’oltretomba il fazzoletto allo spirito della vecchia che era apparsa in sogno. 
Le ragazze rimasero in silenzio per un po’, qualcuna si fece perfino il segno della croce. 
Quel giorno in vicinato era nato un bambino. 
Tzia Letizia aveva sentito la voce della figlia adolescente della vicina che di buon’ora la chiamava a gran voce: 
«Beni tzia Letì, beni ca mammai è morendu!»  
Tzia Urania però non stava morendo affatto, e dopo qualche ora e l’ aiuto prezioso de is bigginas, diede alla luce un bel maschietto. A quel punto l’ usanza voleva che le sorelle del nascituro andassero di casa in casa ad annunciare il lieto evento, ed essendo amiche di Anna, quest’ultima si era unita al gruppetto. Bussavano alla porta di ogni abitazione e annunciavano festose: 
«Unu saluru de part’e mammai. Si faeusu sciri ca in dommu du esti genti noa 
A quel punto le bambine ricevevano gli auguri e qualche monetina. 
Quando però Annina era tornata dal giro con le amichette era scura in volto. Si tolse il fazzoletto dalla testa e si sedette vicino al camino spento . Tzia Letizia , intuendo lo stato d’animo della bambina, le si avvicinò, ma non fece a tempo a chiederle nulla che Anna scoppiò in lacrime: 
«non è giusto a Giuannicca e Bainza hanno dato  tres arrialis , tre soldi , e a me niente » 
La mamma sorrise: 
<e certo, a lei il bambino è fratello, quando anche a te nascerà un fratellino , allora daranno i soldini anche a te>  
A sentire quelle parole la bambina smise di piangere e tornò a giocare con le amichette, appaggiara. 
 
Era arrivato il giovedì, ed era venuto il momento di vestire il letto. Tzia Letizia aveva chiamato una sua cugina che aveva un bambino molto piccolo, perché il neonato sarebbe servito per propiziare la fertilità della coppia che si accingeva a unirsi. Era venuta anche Agnese, una cara amica di Maria, che aveva entrambi i genitori ancora in vita, si diceva che fosse ancora vergine, e avrebbe potuto toccare le lenzuola. Queste ultime erano state stirate con su ferru a braggia, il ferro a brace e cucite una con l’altra, a simboleggiare la verginità che veniva violata la notte di nozze. A questo proposito Maria avrebbe  voluto ironizzare, dato che lei nel letto ci entrava a cose già fatte, ma Tzia Raimonda l’aveva zittita con un occhiataccia. Sa sorga la suocera era scesa apposta per controllare che tutto venisse fatto come si conveniva, e aveva cosparso le lenzuola di riso e soldi, e recitato le avemarie per propiziare la buona sorte  su quell’ unione. Alla fine era stato servito il pranzo ,e le più anziane fra le donne avevano intonato canzonette in rima. 
Maria si era andata a sedere vicino alla suocera, una donna corpulenta e bassa, non molto bella ma molto pratica. Costei si era informata delle condizioni del futuro nipote , poi aveva cominciato a ragguagliarla  circa tutto quello che avrebbe riguardato la sua nascita e i primi mesi dal parto. 
Cara figlia mia, quando un bambino nasce bisogna stare attenti perché le coghe sono assetate di sangue fresco.La notte si trasformano in mosche e entrano dai buchi delle serrature per andare a bere il sangue dei neonati dalla fontanella.Per evitare che la coga possa fare del male al nascituro, bisogna mettere delle scope a testa in giù dietro le porte , o lo spiedo e il treppiede rovesciato sotto la culla.Un altro rimedio è porre un rosario vicino al bambino, la coga sa contare solo fino a sette , quindi conterà i grani del rosario fino al mattino e alla fine dovrà scappare senza aver bevuto. 
Continuò il racconto menzionando una storia che era successa a una sua lontana parente. Quando era nato il loro bambino, si erano dimenticati di mettere la scopa a testa in giù dietro la porta, e così la strega era entrata sotto forma di moscone. Il marito l’aveva vista e le aveva bruciato una zampetta con un pezzo di candela, ma la mosca era riuscita a fuggire. Il mattino dopo , aveva incontrato per strada una donna del vicinato con il braccio fasciato, e aveva capito che la coga era lei. 
Aggiunse inoltre che avrebbe chiesto la grazia a san Pietro di proteggere il nascituro. Santu Pedru infatti era un santo molto potente e venerato: aveva sconfitto il mostro che regnava a Golgo e l’aveva sepolto in su Sterru. Lui avrebbe di certo tenuto lontani tutti i mali. 
A Tortolì si respirava aria di festa, si stava avvicinando il tempo de is festas de Sartu. Le ragazze facevano a gara a chi cuciva le stoffe più belle, e gli uomini andavano tottus paris, tutti insieme, a fare a gara a chi preparava il giogo più bello. Le donne stendevano sui balconi i loro lenzuoli migliori, per accogliere il Santo di turno che passava tra le vie del paese. 
In casa di tzia Letizia invece fervevano i preparativi po sa coja. Il vestito era già pronto e confezionato, anche se all’ultimo momento avevano dovuto far allargare il corsetto, che ormai era troppo stretto per quella pancia che cresceva ogni giorno di più. 
«Centu concas e centu berrittas cento teste e cento cappelli» 
Andava lamentando tzia Raimonda, mai contenta delle decisioniriguardanti il matrimonio : Maria allora aveva cominciato a ridacchiare e lei l’aveva fulminata con lo sguardo. 
«S errisu e s arenada la risata del melograno l'avevo detto io a tua madre che non era cosa buona che sei nata  cun su cappiu. con il cordone ombelicale legato al collo » 
A quel punto tzia Letizia aveva alzato la voce intimando alla zia di smetterla di inveire 
«Sa merzei si deppiri cittiri, non sta bene spaventare una donna incinta.» 
Quando la levatrice, 16 anni prima, le aveva detto che un giro di cordone significava figli fuori dal matrimonio, aveva sottovalutato la situazione, ma ora si rendeva conto che la saggezza tramandata dagli anziani era davvero la fonte più autorevole di sapere, dalla quale tutti potevano dissetarsi. 
Ora che si avvicinava il tempo di riparare al danno però, la donna si sentiva più serena. Tzia Bonaria d’iara preguntau is cartasa, le aveva fatto le carte ed era stato chiarissimo che sarebbe andato tutto per il meglio. 
La mattina prima della partenza, Annedda era andata a giocare con Antoni come al solito. I due bimbi, curiosi, si erano spinti fino alla casa del parroco, che abitava in una villa  colonica con un alto portone in legno, mai chiuso a chiave, e al suo interno vi era un giardino dove cresceva una vite dai frutti dolcissimi. I due erano entrati a mangiare l’uva e, quando avevano sentito dei rumori provenire da una stanza, si erano messi a spiare dal buco della serratura. C’ era una grande vasca d’ottone al suo interno, e un pianoforte a coda. Il parroco era immerso nella vasca e si godeva un bel bagno caldo. I due cominciarono a ridacchiare alla vista del parroco nudo e lui li sentì. Si alzò di scatto e si mise addosso la tunica, deciso ad acchiapparli e dargliene di santa ragione. I bambini scapparono ridendo e si nascosero in un campo di fave. Quando Anna tornò a casa le buscò di santa ragione da sua madre 
«Pèrdia ti fusti? Cambiarì coirendu ca perdeusu sa corriera!» Ti eri persa forse? Sbrigati che perdiamo l’autobus!  
Anna ubbidì, con gli occhietti gonfi di lacrime e le natiche doloranti. 
Goppai Badddori arrivò con il carretto e accompagnò le donne a Fraulocce, vestite con l’abito buono e con indosso i loro gioielli più belli. Nel baule che il compare aveva issato sul carretto quando era  arrivato avevano riposto il prezioso abito nuziale.  Mentre la corriera percorreva la strada che da Tortolì portava a Baunei, Annedda fantasticava su quale fosse il nuraghe dove su foeddu narada ca bivianta s’orcu e sa pobidda, sa dente longa. Se non fosse stato che doveva andare al matrimonio della sorella, di certo sarebbe andata a cercarlo. Voleva vedere di persona se il tanto famigerato orco esistesse veramente .Voleva essere coraggiosa come il suo amico fraterno Antonio. 
Le tre donne rimasero piacevolmente stupite dal paesaggio che si poteva godere una volta arrivare a Baunei. Non erano mai state fuori dal loro paese, a parte per il funerale di tzia Cornelia, una loro cugina di Gellesuili, e mai avevano visto la campagna da un altezza simile. Il mare lambiva pigramente la costa , gli scogli rossi del Porto di Arbatax si immergevano con fare lascivo in quelle acque blu cobalto, che il sole si divertiva a far brillare. Maria pensò che forse non le sarebbe dispiaciuto vivere a Baunei, dopo tutto. 
L’accoglienza da parte dei parenti dello sposo fu calorosa e Letizia e le sue figlie furono fatte accomodare in una camera preparata apposta per loro. I giorni di festa passarono velocissimi, l’unione dei due giovani fu festeggiata con tutti gli onori e gli invitati furono tanti, come voleva la tradizione .Quando arrivò l’ora di tornare a casa le donne erano stanche, ma felici. La consuocera preparò per Letizia un generoso vassoio di dolci, tra i quali su cunfettu che tanto era piaciuto loro , e non mancarono le lacrime all’arrivo della corriera e la promessa di vedersi presto, quando il bambino di Maria fosse nato. 
Mentre la Columbus si dirigeva a Tortolì, Annina pensava a quanto le sarebbe piaciuto poter scorrazzare libera su quei monti, come una capra. 
 
 
 
I mesi passarono veloci e la pancia di Maria cresceva sempre di più. Grazie al cielo la casa dove era andata ad abitare si trovava molto vicina a quella di sua madre, quindi anche se il marito spesso era assente a causa del lavoro, lei non rimaneva mai sola.  
Un giorno di fine inverno lei e sua sorella Anna si stavano dirigendo al lavatoio. Sebbene fosse grossa e prossima al parto Maria non aveva interrotto le normali mansioni che si convengono a una moglie che si rispetti e, oltre a continuare a lavorare col telaio (passione che le era stata tramandata da sua madre), si recava settimanalmente al fiume per lavare i panni. Quella era un occasione speciale perché avrebbero dato una rinfrescata al corredo del bambino. Non erano  lontane dal fiume quando  ad un certo punto lo videro: sulla riva opposta giaceva un fagotto minuscolo, dal quale sporgeva  un piccolo piede... mosse dalla curiosità, si diressero sul ponte verso l’ altra sponda. Quando arrivarono lì vicino però, l’orrore si impadronì dei loro volti. Dentro il fagotto giaceva un neonato morto. Maria per poco non svenne, e Annina dovette andare a chiedere soccorso, scossa com’era per quello che avevano appena visto. 
Una piccola folla si radunò sulla sponda del fiume e Maria fu portata in braccio fino a casa di Tzia Raimonda. Costei temeva che per lo spavento, s’ assuccongiu sarebbe potuto capitare qualcosa di brutto a entrambi e decise di chiamare Tzia Bonaria Carta, esperta di questioni riguardanti il malocchio e altre cose  . Il mattino dopo la donna si presentò al loro cospetto e decise che sarebbe stato utile imbruscinai sa picciocca in campusantu. 
Per tre mattine consecutive le donne si recarono in cimitero, e mentre Bonaria recitava preghiere alla Vergine Santissima, Maria venne fatta rotolare tra le tombe in modo che il movimento ricreasse il segno della croce. In casa poi venne messa una tegola davanti alla porta , e venne preparato su fumentu, dove con tre braci venivano arsi caffè e zucchero, e Maria fu fatta saltellare 3 volte a mo’ di croce mentre il fumo le si spandeva attorno .La piccola Serafina nacque di lì a un mese, a termine e sana. 
 
Tempo dopo si scoprì quale orribile sorte era toccata a quel neonato trovato sul greto del fiume: era frutto di un incesto, dissero, e il padre della ragazza che l’aveva messo al mondo , quando era venuta fuori la storia del cadavere, aveva legato la fune a un albero e si era impiccato. La figlia , fuori di sé per il doppio lutto, era stata mandata lontano, in un manicomio gestito dalle suore. 
Malelingue dissero anche che, tempo addietro , questa sfortunata era stata scomunicata dal prete del suo paese a causa del suo abbigliamento non consono. La colpa di tutte le sue sciagure era stata solo sua. 
Erano passati diversi mesi e la bambina  di Maria cresceva sana e forte. Annina andava spesso a casa della sorella ad aiutarla nei doveri e teneva Serafina mentre la sorella tesseva al telaio. Al battesimo era stata lei a portarla all’altare, ruolo che l’ aveva ricoperta d orgoglio. Le piaceva occuparsi della nipotina, confezionare sas zibingioneras di stoffa con lo zucchero, cantargli le filastrocche che poco tempo prima erano state riservate a lei. 
 
Mentre  la sentiva canticchiare, Maria sorrideva seduta al telaio ,e ricordava con nostalgia quando Annina era ancora neonata e lei aveva aiutato sua madre a da pesai a crescerla , mentre Tzia Letizia andava a lavorare nei campi. 
Quel giorno però, Annina non stava affatto bene, e Maria se ne accorse subito. Dopo averla fatta coricare, andò di corsa a cercare la madre, che in quel periodo lavorava in un campo lì vicino, e insieme tornarono a casa. Anna era febbricitante e delirava . Mentre tzia Raimonda le preparava degli impacchi d’acqua fresca da mettere su fronte e giunture, Letizia corse a cercare Tzia Lena Sioni, un anziana esperta di pregantasa. Quando arrivò al capezzale di Annedda, volle che le donne l’aiutassero a spogliarla . Esse notarono, poco sotto la coscia, quella che a loro parve una puntura d’ insetto, molto gonfia e arrossata. 
«Esti bobboi sulau custu è insetto velenoso. 
Sentenziò la vecchia, mentre tzia Raimonda correva a prendere s’ollu de scrappioni, l’olio di scorpione e cussu de pistiggioni, du girara cun d’una pinnia de pudda, lo girava con una penna di gallina , e lo applicava alla parte gonfia, e tzia Lena cominciava a recitare is pregantas. 
Era mezzogiorno inoltrato, e il soleilluminava già  da un pezzo sa conca de su para nel monte di Baunei quando finalmente Annina si svegliò. Letizia aveva vegliato vicino al suo letto tutta la notte, e ora giaceva con la testa abbandonata sulla spalliera della sedia e il rosario tra le mani. 
«Mammà, tengiu famini mamma, ho fame , faimidda sa fresa fammelo lo zabaione.» 
Aveva detto la bambina alla madre che, svegliandosi e vedendo che la figlia era guarita, si era messa a piangere ringraziando il Cielo. 
«Non d appu a nai oi santu 
Aveva risposto tzia Rosaria con il suo solito fare brusco, entrando in quel momento in casa, riferendosi a sa fresa. Ma, anche se non lo dava a vedere, anche lei  era felice che la nipote si fosse ripresa. Aveva passato la notte insonne a pregare sant’Anna. 
Dopo che Annedda ebbe mangiato, Rosaria insistette affinché chiamassero nuovamente tzia Lena a preguntai s’abba, per capire se quello che era successo alla bambina il giorno prima fosse malocchio. 
Misero in un bicchiere d’acqua tres perdas de craboni tre pietre di carbone e queste si misero a galleggiare. A quel punto le donne cominciarono a recitare su pregantu de sa meiga: 
«Sant’ Anna e santa Irena , sezzianta in d una ena, in d'una ena sezzianta, filanta e tessianta, tessianta e filanta, e is filus abbascianta. – Sant Anna e santa Irene sedevano in una porta ,in una porta sedevano, filavano e tessevano, tessevano e filavano, e i fili abbassavano. 
Lo recitarono più volte , poi tornarono a consultare l'acqua, stavolta con tre grani di sale. Questo  non fece bollicine. Il malocchio era stato cacciato. 
Quella domenica si vestirono tutte con il vestito buono e si coprirono i capelli cun su muccaroriil fazzoletto – e andarono in chiesa a ringraziare Iddio e sant’ Anna per aver risparmiato la vita ad Annina, che era tornata più in forma che mai. Zia Letizia si accostò all acquasantiera e si fece il segno della croce. 
«Acqua santa beneditta, in sa fonti sesi scritta, in sa fonti ses fissara, acqua santa coronara.» –Acqua santa benedetta, nella fonte sei scritta, nella fonte sei fissata, acqua santa incoronata 
Poi si inginocchiò, e volle che le figlie facessero lo stesso. 
«Deu m ingenugru in custu mattone, su primu saluru a su Signore, su segundu a sa Vergine Maria,a tottu is Santus nau bonas dias – Io mi inginocchio in questo mattone, il primo saluto a Nostro Signore, il secondo alla Vergine Maria, a tutti I santi auguro buona giornata. 
 
All'uscita di chiesa Maria incontrò le sue amiche, camminavano fianco a fianco, discorrendo del più e del meno, mentre la bambina in braccio alla madre si guardava intorno curiosa. 
< ho sentito un discorso l’altro giorno in macelleria>. 
Disse Antonietta con il suo solito fare civettuolo. 
Una civetta era passata la notte sulla testa della povera zia Anilia prima che morisse , l’aveva vista zia Elena e l’aveva salutata. 
Tzia Raimonda, dall'alto della sua saggezza, prese la parola e sgridò la ragazza per il tono saccente con il quale aveva parlato di una defunta, poi si fermò vicino a una fonte e volle spiegare loro cos’era accaduto a quella poverina. Quando la civetta era passata sul suo capo e l'aveva maledetta con il suo grido, quella era andata a domu de ztia Bonaria con un rocchetto di filo, e la donna gliel’aveva fatto passaremisurando dalla testa ai piedi, e da un braccio all altro . 
Il filo non era bastato a ricoprire tutta quella distanza, significava che la donna era stata maledetta. 
Allora zia bonaria aveva preso il filo, e si era messoa  tagliarlo a pezzettini, e ogni volta che tagliava diceva:queste sono le ali della civetta, questo è il collo, questa è la testa questo è il fegato...e così via fino a che non ebbe tagliato tutto il filo.Purtroppo però si era dimenticata di interrarlo in terra consacrata .  
Per questo motivo, la povera tzia Anilina era morta . Le ragazze ripresero il cammino in silenzio, e Antonietta si vergognò di essere stata tanto stupida. 
 
Tzia Raimonda era parecchio rispettata in paese, per via di tutte le disgrazie alle quali era sopravvissuta. Una tempra forte la sua , al punto che neppure i dispiaceri più grandi avevano minato il suo spirito. Una volta tzia Letizia l’aveva paragonata a una delle tante piante di ginepro che sorgevano nodose e forti dalle crepe del monte di Baunei e che, al posto di combattere il vento, ne avevano semplicemente seguito il flusso nella loro crescita, allungando le radici per aggrapparsi saldamente alla nuda roccia, di modo che neppure la tempesta più forte potesse mettere a rischio la loro esistenza. Per questo motivo nessuno osava contraddirla. 
Si diceva inoltre che chi era sopravvissuto alla spagnola fosse in grado di sopravvivere a qualsiasi altra malattia. A quei tempi infatti, non esistevano cure efficaci e, quando era scoppiata l’epidemia, i morti erano stati tantissimi. Alcuni entravano addirittura in uno stato comatoso simile alla morte e venivano portati in cimitero ancora vivi .A questo proposito tzia Rosaria era solita raccontare la triste fine di un parente, al quale era stato celebrato il funerale senza che nessuno si accorgesse che ancora respirava. 
Quando i quattro che portavano la bara avevano sentito i colpi e le grida non potevano credere alle loro orecchie. Purtroppo l uomo era stato già a Is murdegus, deposto in terra sagrara ,terra consacrata ,quindi non poteva essere più portato indietro, e I quattro non avevano potuto far altro che accabbai de du mocci a corpus de panga, finire di ammazzarlo a colpi di vanga. 
La donna aveva sempre mostrato un certo distacco, candu allegara de sa morti,quando parlava della morte, come se fosse superiore al ciclo della vita. Oppure, con più probabilità, era solo rassegnata. Aveva pianto così tanti cari che ormai ci aveva fatto l abitudine.  
Ma mai sarebbe stata preparata a quello che avvenne solo qualche mese più tardi. 
 
Quel giorno Maria aveva notato che Serafina era strana. Era stata tutto il giorno a piangere e non aveva smesso neppure quando aveva cercato di attaccarla al seno. La ragazza si era preoccupata e aveva chiamato sua madre. Era nuovamente incinta e temeva che questo suo stato le avesse fatto sparire il latte.  
Quando Letizia arrivò,controllò lo stato della bambina; era di uno strano colorito giallognolo, e notò che dall ombelico le usciva una specie di bozzo. 
Fu decisione unanime quella di portarla all’ospedale di Nuoro, un lungo viaggio che Maria dovette affrontare insieme alla madre e con la piccola in condizioni disperate, mentre tzia Rosaria rimaneva a pregare in casa con Anna. 
Serafina si spense qualche giorno dopo .Maria si ricordava che la nonna le aveva detto che quando una persona sta per morire, si vede dalle unghie delle mani che cominciano a diventare blu. Ma la sua bambina era rimasta bellissima, e sembrava che dormisse. 
I dottori le avevano parlato di blocco intestinale, di ernia, ma per lei questi termini non avevano significato.La sua piccola era troppo bella, così qualcuno le aveva fatto il malocchio. Era quasi certa di sapere chi fosse stato a condannare morte la sua Serafina:qualche settimana prima una donna di Lotzorai era venuta a casa loro per comprare del formaggio. Come si era avvicinata alla culla, la bambina aveva cominciato a piangere, e si era calmata solo dopo che la donna se n’era andata . 
Una vita si era spenta, un altra cresceva dentro di lei. Maria sapeva che non si sarebbe potuta permettere il lusso di soffrire troppo quella perdita. Eppure dentro di lei, la sua anima urlava di una disperazione silenziosa e lacerante. In quella sala fredda, la sua bambina giaceva in un tavolo,e a un certo punto, la donna fu tentata di prenderla tra le braccia, e provare ad attaccarla al seno. 
Le cantò una ninna nanna, mentre la cullava teneramente. 
Fu Letizia ad occuparsi di vestire la nipote il secondo e ultimo viaggio della sua vita.Il primo l'aveva portata in ospedale viva, il secondo la riportava a casa, morta . La riposero in una scatola di latta con una copertina arrotolata come cuscino e tornarono in paese in corriera. 
Maria tenne stretta la scatola per tutto il viaggio e non parlò mai. Letizia soffriva in silenzio, per la perdita della nipote e la sofferenza della figlia, che non aveva ancora compiuto 18 anni e già piangeva una figlia. 
 
Purtroppo anche i ginepri più forti, dopo centinaia di anni, sono destinati a perire.Tzia Rosaria morì insieme alla nipote il giorno del funerale, anche se il suo cuore non lo seppe mai, se non dopo tanti anni. 
Candu una femina perdiri su sentiruquando una donna anziana perde la ragione – é come se per qualche strana maìa tornasse indietro con la mente a quando era ancora giovane, a volte a quando era bambina. 
Annedda si divertiva a stare al suo capezzale perchè, benchè non riconoscesse più nessuno dei suoi parenti, la donna era solita raccontare incredibili storie della sua infanzia. Quando il marito di Maria andava a trovarla, lei lo scambiava sempre per il defunto marito, e lui non osava dissentire. Quando, dopo qualche minuto, tzia Raimonda capiva di non aver di fronte su pobiddu, bensì un ragazzo a lei ormai sconosciuto, il suo sguardo si velava tutt’ a un tratto e smetteva di parlare. Rimaneva così, in una specie di catalessi mentre la sua mente fuggiva lontano, viaggiando nel tempo fino ai momenti della sua vita in cui si era sentita veramente felice. Quando andava per i campi di trighendia e orgiu cun sa marra in paris cun is amigas, cantando con i piedi immersi nel fango e asciugandosi il sudore con il fazzoletto, tempi nei quali l'unico problema che gravava sulle sue spalle era il corredo da ricamare e la cena da preparare. Quelli erano gli unici momenti nei quali pareva abbozzare un sorriso sotto quelle labbra rugose e la pelle avvizzita dal troppo dolore. 
Poi c’erano quei momenti nei quali nei suoi occhi tornava a brillare un barlume di vita . Era nato il secondogenito di Maria, un bel maschietto, e la ragazza gliel’aveva portato per farglielo conoscere. Tzia Rosaria l’ aveva stretto tra le braccia, forse aveva pensato che era il figlio che non aveva mai avuto, e aveva intonato una nenia dolce. 
"A duru duru duru duru dai 
che questo bambino non muoia mai 
meglio che muoia la vacca col vitello 
che non muoia questo bambino bello 
che il vitello ce lo mangiamo 
e il bambino lo sposiamo 
con una brava ragazza da sposare 
A duru duru duru duru dai." 
Maria non era riuscita a trattenere le lacrime, e carezzava i capelli della vecchia, ormai bianchi da tempo, mentre si addormentava con il bambino tra le braccia. 
Quando Tzia Raimonda se ne andò, era una fredda giornata di settembre. Quella notte i cani non abbaiarono, gli unici forse ad aver ben compreso che quello che si era spento , consumato dagli anni e dalla sofferenza,  era ormai da tempo un corpo vuoto , perchè l’ anima già non vi abitava più. 
La veglia funebre fu triste e silenziosa. Tzia Raimonda nella sua lunga vita aveva avuto modo di conquistarsi il rispetto di chiunque l’avesse conosciuta . Ora sarebbe toccato a tzia Letizia prendere il suo posto in famiglia. Per lei, temprata nella solida roccia, era giunto il momento di riposare in pace. 
 
 
Anni e anni si sono succeduti da allora, e tante generazioni si sono date il cambio l’un l’altra nella staffetta della vita, ognuna forte dell’antico patrimonio tramandato loro.Ora che le donne non vanno più a lavare i panni cantando, in s erriu s intendiri solu s abba calendunel fiume si sente solo l'acqua che scorre... 
Ora che i bambini non si rincorrono più attraverso i campi di trighendia e faha, la campagna è diventata silenziosa. 
Eppure, se si sta in ascolto, con gli occhi chiusi, is ogrus serraus, e si tende l’orecchio, può capitare ancora di sentire, in lontananza, un coro di fanciulle che si reca a trabballu, intonando muttettus e canzoni in dialetto, che parlano di ragazze innamorate e giovinetti che vanno in guerra. 
E se ci si concentra ancora di più, aprendo gli occhi può capitare di vedere due sagome furtive, una ragazza e una bambina, con la brocca in testa , che si dirigono in tutta fretta verso casa, scalze, avvolte nei loro scialli. 
La verità è che tutto questo fa parte dell’ eredità che coloro che hanno vissuto prima di noi ci hanno lasciato, ci scorre nel sangue, e non possiamo ignorarlo. 
Forse se chiuderemo gli occhi non sentiremo nulla, solo il vento che soffia fra le fronde nodose dei ginepri. 
Ma basterebbe che guardassimo nel nostro cuore , per scoprire che un po' di quelle donne ,in fondo,è ancora custodito in noi.